Regia di Josh Trank vedi scheda film
Primo (vero) film del ventisettenne di Los Angeles Josh Trank.
Questo “Chronicle” divora il tempo passato dall’esperienza (finto) super-8 di memoria quasi recente e di svariate altre prove di eroi super con sfigati/e vari dintorni che tentano di farsi notare oltre il confine ristretto. Ciò di per sé non suscita ilarità e tantomeno acidità, ma certo lo sbarcare il lunario dentro una vita rinchiusa, autorincoglionante e metastasi di un virtuale mangia sensazioni produce l’effetto (o qualcosa che avvicina a tale concetto) di un colabrodo di emozioni e di una debordante metafora che diventa un clamoroso autogol. Fin quando lo spartito è quello di girare un film gradevole e di scontrarsi con una storia non-sense ci siamo, ma quando si vogliono tirare le somme con idee di base minime per arrivare a ‘definizioni’ in alto (per non dire massimi sistemi) la cosa mi sfugge (completamente) e non piace per nulla (è ovvio che parlo liberamente –ci mancherebbe- a titolo personale). Una goduria di base che finisce prima di cominciare: questo è il succo di questo film già spacciato da (più di) qualcun per ‘piccolo caso’ e ‘cult’ per i posteri (oltre ai presenti) del futuro della settima arte. Non mi pongo dietro la schiera.
Eppur qualcuno ascrive questa ‘opera’ già nel cerchio delle pellicole ‘prime’ che lasciano il segno e che vorrebbero (vogliono?) dettare il la per conduzione della storia e piglio generazionale di forte e grande veduta. Non per chi scrive. Il film appare troppo pilotato e portato al termine con decantazioni tragiche che assumono la catarsi e la deriva del primo (o meglio tardivo) vagito del nuovo millennio. Ma siamo sicuri che con decurtazioni visive e immaginari autoriproducenti (che vorrebbero falsificare il già falso) si può fare un prodotto ‘esplosivo’, ‘spudorato’ e pieno di messaggi per quelli che la realtà vivono in altri ambiti con simili amenità spacciate per nuove e che marcano un stato di esistenza incazzatissimo? Per ciò ho visto (e sentito) no. Mi è venuta dietro una piccola cosa venuta su dal nulla abbastanza bene, cresciuta malino e finita nel peggio gergale di una finzione ‘immonda’ e ‘senza senso’ (alcuno). Gli ultimi minuti che dovrebbero essere chiarificatori per pellicole che pompano il dire (senza parole giuste) e dare un giusto avvio a tutto il (poco) presupposto franano rovinosamente con un epilogo a dir poco risibile e non convincente. L’aspettativa generazione è in attesa, ma anche l’adulto attende per capire. Risposte (filmiche per carità) nulle (non si avverte nessuna certa cosa ‘irrazionale’) e pandemonio di pragmatica come molti altri films più costosi (i blockbuster da distruggere, disprezzare in ogni dove e prendere in giro) per una seconda parte per niente onirica e metropolitana-retrò ma semplicemente fasulla e per niente sarcastica. Altri film dicono meglio. Si vuole elevare il tutto e si cade a terra paurosamente. Cuocendo l’uovo senza buone frittate!
Andrew (Dane DeHaan), Matt (Alex Russell) e Steve (Michaal B. Jordan), tre ragazzi della perduta generazione postmoderna americana, che di fronte ad acquisite nuove facoltà (di poteri super-eccezionali) tentano di darsi delle regole e di giocare (e darsi delle arie) per compensare il loro piccolo ‘giardino di vita’ con manifestazioni estemporanee, di allegria e di rottura verso i vicini (e le rispettive famiglie, disunite, incapaci e vomitevoli). L’esaltazione, la grandezza e la voglia di stordimento creano in tutti e tre un gioco troppo forte e, ancor più, in Andrew, ragazzo labile nei rapporti e sentimenti, la (giusta) ricompensa per una rivincita (su tutto e tutti) quanto mai attesa (e mai sperata). Il succhio feroce dell’incapacità di gestire(si) produce effetti destabilizzanti e devastanti nel piccolo gruppo e, poi, in tutta la comunità (e la città intera). Un’ingordigia sensa senso che sfocia in un meccanismo incontrollato e incontrollabile (con morte e ferocia mai sopita).
Quello che resta da dire è che il gusto di quello che la storia vorrebbe manifestare si esplicita nello schermo con confusione, sforamenti e paranoie finali inconcludenti e non-sense. Un film che (virtualmente) vorrebbe dare molto che invece annaspa, annacqua e si perde (in modo puerile) nel più classico (in senso retrò) mirabolante caotico e delirio di facce e specchi visto e rivisto. Nessuna novità. E quello che s’immagina deflagrante nell’autoripresa (mi faccio tutto anche il finale) implode su se stesso in un caos spudorato (per chi è in erba nell’immaginario filmico) e semplicistico (per chi non si fa ingannare da contorsioni immotivate e schematismi da cartoon anni settanta e/o se si preferisce della generazione postottantadue). Certo il film si compiace e gode di stesso con la voglia (auto)ingannatrice di riprendersi e di specchiarsi con una goduria reciproca tra ragazzi già cresciuti in un crumirio familiare inesistente dove gli adulti sono sbiaditi, comparse di ultima fila e, soprattutto, sconclusionati: un rapporto contorto, amaro e vigliacco quello tra Andrew e suo padre (mentre la madre è malata terminale) dove vince la forza (della disperazione) innata mai repressa. Tutto appare lineare e congruo ma dopo un inizio da ‘curioso’ vitale, il film annaspa con svirgolate laterali e situazioni poco incisive. L’amicizia come pretesto narrativo (i falsi rapporti di comodo) viene solo sfiorata e la seconda parte prende una deriva ‘confusionaria’ piena di buoni presupposti che finiscono in un ‘calderone’ di guerriglia urbana non molto allettante e con un effetto baraonda salomonico e. al contesto, irrilevante e vuoto. Poi il finalino è fuori luogo e senza una ragione d’essere. Una postura iniziale buona (una ventina di minuti) che annega in una poltiglia degenerante e fastidiosa. Quello che vuole dire il film viene trattenuto troppo (dentro) e non viene espresso in modo compiuto. Con in più una noia che serpeggia mano a mano…fino al Tibet. L’unico vantaggio che la pellicola dura meno dei novanta minuti canonici. N.b. Alla proiezione un gruppetto di quindicenni che erano annoiati a se stessi e poco erano attratti alla pellicola. Poca voglia di vedersi. Quello che ho immaginato è poco più di uno sforzo produttivo post-adolescenziale e di un piccolissimo contorno in pellicola (istantanea alla fine di una festa mal riuscita).
Attori misurati e smaniosi ma (quasi) dimenticabili. Ambienti e messa in scena di modesta fattura con luoghi dietro garage. Accensione finale vista con riprese dall’alto per intenerire di fronte al gioco (ma oramai il video personale di Andrew è quello di altri) in una città senza ombre notturne. Il Tibet è superfluo per ingigantire un animo disperso. La regia è semplicemente di livello al film (mediocre).
Voto: 5-.
(pubblicato su: icinemaniaci.blogspot.com)
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