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Rock of Ages

Regia di Adam Shankman vedi scheda film

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La recensione su Rock of Ages

di M Valdemar
2 stelle

Che gli dei del Rock fulminino questa orribile farsa musicarella!
Due ore abbondanti di sfiancante, virulenta, manierata sbobba modaiola canora che abusa in modo meschino e goffo delle più nobili istanze della musica del diavolo per darsi un look maledetto e proibito, ma che invece poggia su confortevoli basi “poppeggianti” con cui attrarre i poppanti.
I continui artefatti richiami al rock and roll - costantemente citato (ad minchiam) e pertanto dileggiato, umiliato, nominato invano - fungono da mero pretesto e semplice distrazione per inscenare l’ennesima, insulsa, banale, stravista girandola sentimentale. Una storiella d’amore edificante e zuccherosa infarcita di stereotipi, prevedibile in ogni sua fase, stomachevole in ogni suo momento clou.
E ritmata da rivoltanti numeri canterini, insopportabili e melensi, che alternano pezzi originali (di rara bruttezza e insipienza) e brani famosi, non a caso scelti tra quelli più commerciali e ballabili degli anni ottanta, “lentoni” strappalacrime strappamutande compresi.
Rock of Ages è una baracconata furbetta e fasulla che strizza l’occhio (truccato) agli adepti di programmi televisivi - reality inclusi - a tema (pesudo)musicale, e sfruttando l’ambientazione dei vaporosi, colorati, laccati (nel senso di lacca per capelli) anni ottanta si costruisce un’immagine decisamente “cool” e glamour, dietro cui si celano banali mire mistificatorie di ideatori incapaci e dannosi.
La “sostanza” mendace - vuota, inconsistente, melmosa - si sublima per mezzo di voci, di canzoni, di facce, di figure estremamente “pulite”, educate, perfette, gentili, curate, belle, di plastica. Proprio come i due giovani protagonisti, la cui scelta si è rivelata alquanto infelice: lui, Diego Boneta, è scialbo e insignificante come pochi, e (non) vincerebbe il concorso per il volto più anonimo; lei, Julianne Hough, bionda smorfiosa e volitiva, sembra una playmate a cui piace giocare col microfono.
Entrambi cantano “bene” - con tutta l’accezione negativa che gli si può dare - e prestano i loro intonati, graziosi, limpidi vocalizzi per (s)trillare la loro sdolcinata love story, ma anche la loro più che intuibile crescita “artistica“.
Attorno alla scioccherella vicenda di tali bambolotti ruotano altri personaggi con le loro storie, con una sceneggiatura ridicola scritta malissimo che fa continuamente riferimento alla libertà e “pericolosità” del rock con un candore e un’ignoranza che ha dell’incredibile. Non basta piazzare qua e là schittarate ed espressioni “giuste”; è tutto così stantio, finto, artefatto, con i buoni che trionfano, i cattivoni che vengono scoperti e allontanati, e la straviziata star che ritrova l’anima e mette la testa a posto.
Nelle intenzioni si vorrebbe poi prendere in giro il fenomeno delle boy band e l’intransigente ottusità di certi oppositori politici reazionari, ma sono solo altri fittizi ed estemporanei tasselli (come l’inutile dichiarazione d'amore tra l’irritantissimo Russell Brand e il bolso, fuori parte, Alec Baldwin), utili alla costruzione dell'allegro castello di carte, a cui basterebbe indirizzare un sonoro rutto liberatorio affinché si sgretoli e riveli tutta la sua frivolezza e vacuità, l’inganno perpetrato. Perché a questo film mancano vero sudore, sangue, saliva, escrementi, fatica, sesso, droghe, spirito.
E pure i membri dei gruppi: dove sono? Sia quelli degli Arsenal, la band della megastar Stacee Jaxx (il superpreparato superfisicato superbuffonesco Tom Cruise), sia quelli della band dell’imberbe protagonista maschile, non si vedono, relegati sullo sfondo a fare da carta da parati: l’innaturale personalizzazione è compiuta, l’incultura è stata svelata.
Rock of Ages fallisce inoltre anche sul versante squisitamente umoristico, affidandosi a battute che non fanno mai ridere e all’immancabile presenza del simpatico schizzato animaletto di turno (il babbuino “Hey Man”), membro della corte di Jaxx.
Regia meccanica, coreografie stereotipate e attori svogliati e svagati (l’unica da salvare è la magnifica Catherine Zeta-Jones, mentre è inconcepibile lo spreco di Paul Giamatti) completano un quadro misero e da cestinare all’istante.
Insomma non c’è nulla in questo film che valga la pena di ricordare. E soprattutto non c’è nulla che abbia a che fare col Rock’n’Roll.

Burn in Hell.

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