Regia di Luciano Salce vedi scheda film
Come si fa a tenere tenue la luce dell’abat-jour? A vedersi e non vedersi, pur essendo certi della presenza dell’altro? Ecco la domanda. Ha ragione Salce: questo film è un film di osservazione. Ma veniamo a ‘Le ore dell’amore’, all’incipit. L’annuncio del matrimonio è ad un ricevimento da amici. Gianni è imbarazzato, straparla, cerca il contegno giusto, blandisce l’attimo da cui non tornerà indietro (ma tornerà…) quasi lo sentisse più solenne della stessa cerimonia nuziale. «È fatale» esclama Gianni tra una congratulazione ed un'altra. «Ci si casca un giorno o l’altro» aggiunge, tentando di esorcizzare con l’ironia la sontuosità del momento. Ecco i significanti che aggiungono un più di senso al matrimonio di Gianni e Maretta: è fatale (un matrimonio è fatale, cioè mortale); è un buco, ci si casca dentro, senza idea di uscirne. Tra le risa e le felicitazioni tutto rimane sospeso quando un elegante e diafano amico di Maretta, dall’aspetto di un Faust invecchiato, regala ai due promessi un amuleto portafortuna per gli anni a venire, un prodotto di artigianato dell’isola di Giava, una gazzella gialla. Gianni e Maretta rimangono assorti a contemplarsi, come a cercare negli occhi dell’altro un rispecchiamento, il primo di una serie, l’attesa forse che l’altro ci restituisca la nostra verità perduta, ma quale? Una gazzella è un animale fragile, agile; è fatto per correre, per fuggire, per dileguarsi, per non farsi trovare, come se l’amuleto suggerisse una via di felicità ed insieme un augurio: non farsi trovare mai. Il matrimonio potrebbe essere un gioco a nascondino dove ci si trova dopo essersi celato all’altro. Il segreto potrebbe essere quello di regolare una lontananza. Gianni e Maretta hanno paura di cambiare la loro vita insieme. Si amano da tre anni, si vedono poco… Perché cambiare? Finchè è Hermes il dio protettore, costruttore di cetre e di cardini, Gianni e Maretta possono essere rispettivamente il signor De Presuntuosis e la signora Saputelli, possono giocare, blandirsi, rincorrersi, far finta di morire e poi rinascere sulle ceneri mai spente di una risata («Ridi? Dai, ridi!?!»). Vedo questo film –Le ore dell’amore- per caso, tanto tempo fa, e mi chiedo come è potuto avvenire che sia stato dimenticato. Mi sorprendo io stesso a scoprirlo, a rivederlo con stupefatta e sommessa emozione, come quella del paleontologo che si appresta ad estrarre dal granito il fossile di un animale raro ma senza più fascino, e perduto. Scrivo queste righe (ottobre 2001) sull’onda della visione de ‘L’uomo dalla bocca storta’, un documento di RAI5 sulla vita e i lavori di Luciano Salce. Anche in questo documento non si parla del film: de ‘Il federale’ certo, de ‘La voglia matta’ naturalmente, ma del terzo film della trilogia non ve n’è più traccia, e mi chiedo perché. «In tre film ho raccontato la guerra, le mie pene d’amore di quarant’enne per ragazze più giovani, e infine l’esperienza matrimoniale» dice Salce in una intervista raccolta da Goffredo Fofi, e continua: «Le ore dell’amore era un film difficile, un film di osservazione, lineare, due che stanno insieme e decidono di sposarsi ma la convivenza uccide l’amore e decidono di tornare a vivere da amanti». Il film quindi risulta essere la terza parte di una immaginaria autobiografia di Salce, il più difficile, forse il più acerbamente meditato, coraggioso a tal punto da spingersi fino ai confini di sensazioni confuse, tra l’ombra e la luce, di malesseri ambigui e cinici, di quelli che assalgono il cuore nella dormiveglia sul divano, di sera, di fronte al programma di prima serata, mentre tutto intorno a sé grida dell’euforia, del boom, del twist, di Via Veneto, dell’auto di massa e del futuro radioso a venire. È un film di tormentata e sofferta formazione per uomini e donne in formazione: come trattare i resti di desiderio quando questo una volta afferrato si dissolve e si rimane con gli avanzi? Il film è del 63, l’anno in cui sono nato, e a vederlo mi sembra di rivivere le stesse atmosfere di me bambino, a casa, gli androni delle scale enormi, i cortili condominiali dei palazzi umbertini di Roma ampi come piazze d’armi, le tende pesanti, i pavimenti di granito a quadri bianchi e neri, i lunghi corridoi in ombra lungo i quali scivolavo veloce col triciclo, e in fondo al quale c’era il bagno da cui era sempre difficile tornare dopo aver spento la luce per paura del buio. La famiglia è stata per i miei genitori uno spazio sognato, desiderato come spazio di libertà. Sposarsi voleva dire avere finalmente qualcosa di proprio, e non c’era in questo desiderio alcun sospetto di trappola, o di passo falso. Gianni e Maretta si sposano perché era questa l’idea in bella mostra sulla vetrina del mondo, una idea appetibile come comprare una bella macchina (la più matura Ford al posto della spensierata spider MG decappottabile). Si tratta di un film che non indulge all’attualità, al rotocalco, al costume. È un film –come dice Salce- di osservazione, ma una osservazione intima, spaventata, che educa sé stessa a guardare senza sgambettare lo spavento. «È un film di poche concessioni, con poche scene facili, un film rigoroso» aggiunge Salce, mettendo l’accento una volta di più sullo sguardo disilluso quando questo si posa sul panorama di ricchezze (“Tutto questo un giorno sarà tuo!”) che l’Italia sembrava promettere se solo si fosse dimostrato di credere. A cosa? All’amore come qualità morale, al corpo come tabernacolo di sentimenti puri, eviscerato delle pulsioni come di un interno indigesto alle forme sociali. Tognazzi è perfetto (come la sua compagna, Emmanuele Riva) nel mettere in scena l’ennesimo personaggio di uomo –appunto- senza qualità, senza disciplina, dandosi egli stesso all’enigma che incarna divincolandosi come può tra il sesso coniugale sempre meno eccitante, le fantasie di avventure esotiche, le domande che l’amico malignamente compone senza poter per questo comporre anche le risposte che tuttavia si danno da sè. Il centro del film è nelle parole di Ottavio nei pressi della fontana: «Ci sono le ore dell’amore e ci sono le ore della vita. Le donne confondono tutto. Vogliono farci vivere ventiquattro ore al giorno soltanto per l’amore, invece la giornata è tua, la vita è tua. Per l’amore c’è la sera. […] Il pericolo è la domenica, le ore vuote in cui ci si guarda in faccia. Comincia a nascere la noia e poi l’odio». La donna è il mostro gentile di Baudelaire per il fatto di incarnare la noia senza essere in grado di provarla, se non fosse che la noia piuttosto che essere la donna è il mostro che sta tra l’uomo e la donna, quest’ultima sospesa nell’immaginario di Ottavio tra la Consolante Certezza (C.C.) e il sogno di averle tutte, belle e brutte, adolescenti, vecchie, tutte. Gianni e Maretta sembrano essere bambini che giocano a 'mettere su famiglia', a entrare nei ruoli rispettabili della coppia coniugale. Gianni a pranzo si aspetta il tavolo apparecchiato, ma Maretta non ha mai cucinato per un uomo; Maretta spende tanti soldi (di suo marito), e una vita agiata e senza pensieri costa troppo. L'attenzione coniugale di uno sull'altro si gioca tutta sul filo di serate passate a vedere la tv, a cercare di cucirsi addosso il ruolo di chi sta per fare qualcosa per altri, a dedicarsi ad altri in una sorta di amore sociale (una famiglia, dei figli, ecc…). Ma il tempo dell’amore è nostro, dice appunto Ottavio (un mai troppo citato Umberto D’Orsi, nobile presenza di tanto cinema di genere italiano). Eppure… C’è un modo di farlo proprio questo tempo –oserei dire- privato, quasi una dimensione della nostra ineluttabile solitudine di corpi che obbediscono a pulsioni? E allo stesso tempo renderlo un ponte di affetti, un’opera a quattro mani e a due menti rese abitabili l’uno per l’altro? La coniugalità sembra ai nostri eroi un mondo in cui la crescita va in un unica direzione. Non permette un tornare indietro, un andare a prendersi parti infantili, per restarvi magari, e restarci a giocare proprio come un bambino; poi tornare certi del perdono e della pietà. Girovagare senza costrutto ad esempio, sperimentarsi, perchè non finisce mai quel processo che chiamiamo identificazione e che non assurge mai a identità, se non al prezzo di rinchiudersi in ruoli che mortificano l’energia e l’entusiasmo. «Ci siamo ridotti proprio male» sussurra Gianni davanti allo specchio del bagno che restituisce la sua immagine spezzata. E Maretta: «Povero Giannotto, era così vivace, simpatico, guarda cos’è adesso…». Nessuno riesce a dire più “ti amo”: chissà perché… Ecco l’altro momento sospeso tra i nostri eroi, il momento in cui una parola potrebbe salvare tutto, e quella parola non arriva. Arriva dalla domestica la parola gridata «Caffè!?!», che all’opposto fa sprofondare tutto nella deviazione dello sguardo, tanto che la vicinanza diventa all’istante urto tra corpi, quasi fossero stati elettrificati. La distanza è continuamente cercata, cercata e mai trovata, finchè ai nostri non resta che tornare a guardarsi da lontano, cercarsi di nuovo, ritrovarsi per fare l’amore e poi tornare a casa, ognuno la propria. Sette e mezza/otto: cos’è? «Ti telefono domani? Sette e mezza/otto? Chiamo io?» chiede Maretta prima di uscire. Eccole le ore dell’amore. Ci si arrende all’evidenza che l’amore si vive nell’indefinitezza, nello scarto, nei resti del senso, negli interstizi tra una cosa ed un'altra, giammai nel suo pieno. Ecco la resa addolorata, spaventata, ad una comprensione che benchè dichiarata («Capisci?») sfugge, sfugge sempre sulle agili zampe della gazzella-amuleto. La scena finale del film mi è rimasta dentro come un sogno confuso. C’è un lungo viale (mi sembra la Via Flaminia prima del Palazzetto dello sport), con i tronchi nudi degli alberi fasciati da una striscia bianca fluorescente che dà l’idea di un braccio listato a lutto ma a rovescio, con il bianco a commemorare qualcosa che è morto, ma anche qualcosa che è ancora vivo. Forse è lo spazio bianco su cui Gianni e Maretta potranno ancora scrivere qualcosa del loro amore, se lo vorranno. In una brumosa alba d’inverno lei si dirige al parcheggio dei taxi per tornare alla casa di sua madre (la stessa che aveva abbandonato per sposarsi), come a cercare un luogo certo e –questo sì- familiare per poter tornare ancora dal suo Gianni, e stavolta come amante. “Le ore dell’amore sono poche, sparse e fuggitive” dice la voce fuori campo, quasi una chiosa, un suggello che sembra essere la voce ultima di Salce prima di lasciare Gianni e Maretta al loro destino di esseri incerti e fragili, feriti una volta di più dal ritorno illusorio della verità: non è possibile fare uno con l’oggetto amato, che il resto di questa tensione è la casa da abitare in due, e a cui tornare ogni volta prigionieri solo della propria solitudine, che l’altro –per quanto ami- non riuscirà mai a lacerare. Film questo del sodalizio Salce-Castellano-Pipolo assolutamente stupefacente proprio nel dare carne ai fantasmi sociali più temuti proprio perché sconosciuti dalla generazione analfabeta (dei sentimenti) che fu quella dei miei genitori, e in un modo così sommesso e intimo, quasi timido, da non essere mai gridato, marchio questo dei capolavori che non sanno di esserlo.
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