Regia di Brian Klugman, Lee Sternthal vedi scheda film
“The Words” (id., 2012) è un film diretto dal duo Lee Sternthal e Brian Klugman
(Per sorvolare su un’orazione di sentimenti passati, scritti e raccontati, il presente prefigura inganni continui a cui è meglio stare lontani. Basta rintanarsi e rinchiudersi in un passatempo di gusto sempre che il nervosismo soporifero non affiori ogni tanto il fiorire dei sentimenti si conservano in una serra).
“The words” appare un (po’) troppo verboso; contraddicendo le intenzioni del titolo (e del romanzo di un giovane-vecchio e di un ruba-idee) si mescolano in una storia con vedute diversificate, i languori e le sconfitte con un parlare sugli altri e una ribellione di cuori sciolti che mai avrebbero pensato di sciorinare le parole come segno di abbandono, di speranza e di coraggio inespresso. E sì, il mescolio eccessivo tra le tre narrazioni (con incipit il testo ancora da aprire adagiato sopra la scrivania) è un buon pretesto (narrativo) per la riuscita del film stesso ma purtroppo ha dei ‘lacci’ che fermano la scioltezza e il gusto di assaporare (fino in fondo) i personaggi raccontati. Alcuni, tra l’altro, ben inquadrati e riusciti che si perdono o meglio rischiano di essere immersi nel pastoso (e a tratti inutilmente fuori-onda) parolaio di racconti e raccontini laterali un po’ soli. Mentre tutto procede ad incastri nella vita (passato-presente) di tre personaggi (e di incontri casuali e forti), lo scrittore Rory Jansen non arriva mai al dunque per un (il) romanzo della vita e il successo mai arrivato si trova (casualmente) in una borsa regalo (nascosto e riservatissimo). Il gioco compiacente e (talvolta) asettico delle storie e dei loro (non) contatti procede in un tormento narrativo non sempre ficcante e determinare per la riuscita sia scenica che recitativa. Il romanzo della giovinezza perduta e di un amore in una Parigi assorta e beneaugurante (almeno così sembra) sono il lascito imperdibile per un giovane che ha idee sparse e quasi nessuna per un nuovo libro da far piacere ad un editore per una pubblicazione fruttuosa. E la storia di Celia e di una nuova vita che si interrompe bruscamente lasciano il segno indelebile nel ragazzo. E vede il suo ego nella scrittura tralasciando il resto e dimenticando un incontro (per una pace da raggiungere). Una dolce avventura e un ricatto maestro che divide e apre tutti i vari incontri e scontri del film. Girato con voglia e con forza la pellicola non riesce a dare allo spettatore il senso compiuto e lo smascheramento delle psicologie dei vari personaggi che ad un certo punto riescono difficilmente a coesistere (ad amalgamarsi resta un dubbio già in partenza). Tra lo scrittore di successo Clay (che ha solo da sorvegliare il pubblico delle sue conferenza stampa), il giovane rampante Rory (che non vede l’ora di sbaragliare tutti) e il vecchio (che crede ‘oramai’ di non aver scritto la sua vita) sono uno nell’altro e uno dentro l’altro: indistinguibili per verso e spauriti da ciò che devono raccontarsi. Prosaico fino all’eccesso e per certi versi inondante di scrittura deja-vu mai permeata di uno stile e asetticamente presente in un racconto interscambiabile ma alla fine, anche, poco comunicativo. E quando il ragazzo si immedesima nella targa-ricordo del passaggio di Ernest Hemingway nella Parigi (sognata) le congetture dei registi rispecchiano l’ego di ciascuno (di loro): aspiranti, viventi e snervanti (scrittori). Tutto in un trambusto di montaggio dove la confusione del trio è lampante ma non cerca mai una penna per un inchiostro e un volume da aprire. Pagine bianche mai domate, tutte sembrano assenti e chiuse. Certo è che lo stile registico (seppur generoso) non raggiunge cifre di livello per dare la sensazione di dare un qualcosa che rimanga: d’altronde la voce fuori-campo (fuori contesto il più delle volte) vorrebbe dare pastoso-melò al tutto ma rimane solo da ascoltare (fastidiosamente) senza intenti di livello. E il triplice film in un uno volge all’epilogo con troppi finali (da copione e oltre il copione). Inutile dire che siamo lontani dal mondo registico di Alejandro G. Inàrritu a cui il film sembra voler prendere spunto (con confronto largheggiante). E’ l’ispirazione da romanzo fa pariglia con l’ispirazione filmica. La pellicola adombra momenti che sembrano seriali ad altri più a effetto oltre il limite commisurato; resta diseguale, e, nonostante, dubbi sulla strategia scritturale, si lascia guardare con giusta partecipazione.
La prova di Jeremy Irons rimane fortemente impressa (lascia altri di una spanna sotto anche il bravo Dennis Quaid) con un troneggiare (senza vanto). Il suo racconto a Rory (seduti in una panchina) vale tutto il film per quello che riesce a ricordarci (per noi che non sappiamo) prima ancora delle immagini (in flashback) ad ogni ritorno al presente. Rubare uno scritto non è rubare la storia di una vita. Ma il vecchio dice che il suo egoismo (per scrivere) non l’ha aiutato a liberarsene. E’ lui che vale il voto.
Voto: 6-.
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