Regia di Babis Makridis vedi scheda film
Babis Makridis come Giorgos Lanthimos. Un regista esordiente che porta avanti l’idea di un cinema greco slegato tanto dall’occidente quanto dall’oriente, che si dibatte nel nonsenso proprio per sostenere la propria indefinibilità. Alla scrittura di questa storia assurda ma non troppo ha collaborato Efthymis Filippou, già autore di Kynodontas e di Alps, portandovi quell’inconfondibile tratto distaccato, che fissa la drammaticità chiudendola dentro una boccia di vetro: un vuoto spinto in cui l’angoscia si trasforma in uno stupore privo di carattere, per sempre attonito ed eternamente irrisolto. La tragica meraviglia a cui i personaggi assistono e partecipano impotenti è la trasformazione, che fa passare ognuno di essi da una condanna all’altra, imprigionando le loro scelte nei vincoli di un copione tanto perentorio quanto incomprensibile. Il protagonista non ha nome, perché per identificarlo è più che sufficiente il ruolo che ricopre: quello di un uomo che è tutt’uno con la sua automobile, a bordo della quale trascorre giorno e notte, passandovi i momenti di vita privata, oltre ad utilizzarla come strumento di lavoro. Di mestiere fa l’autista, trasportando barattoli di miele dalla campagna all’abitazione di un bizzarro cinquantenne. I suoi avversari sono i motociclisti, organizzati in una banda, che odiano gli automobilisti, per l’uso sconsiderato che fanno del mezzo, provocando la morte di molti guidatori delle due ruote. L’uomo, stanco della sua solitaria esistenza, finirà per unirsi a loro, ma poi se ne separerà, andando in cerca di nuove emozioni. La trama, apparentemente semplice, è soltanto un sottile filo logico che collega una successione di eventi tra il reale e l’immaginario, in cui la mostruosità si affaccia, attraverso il ricordo o l’allucinazione, sancendo l’impossibilità di stare fermi a guardare. I fantasmi di morti che chiedono di essere vendicati e di paure future che devono essere scongiurate diventano ossessioni fatali, capaci di governare temporaneamente l’odio e l’amore, stabilendo rivalità ed amicizie. L’apparente ripetitività è solo una sequenza di variazioni sul tema, che si riproducono con sempre maggiore libertà, fino a sfondare nella follia. Il più caro collega del protagonista è stato ucciso da un cacciatore, che l’aveva scambiato per un orso. Questo pensiero, nel corso del racconto, continuerà ad arricchirsi di suggestioni, facendo da autentico nucleo di aggregazione per l’enigmatico simbolismo del film, fino a far tornare i conti: il miele, l’orso, un uomo steso per terra, una morte violenta, un omicidio involontario, una creatura che cammina a quattro zampe, qualcuno che è stato travolto mentre era chino a leccare il suolo stradale. L’umanità non è più un concetto in grado di bastare a se stesso, affermando in maniera autonoma la propria dignità; è un’idea che non può fare a meno di interagire col mondo, con le categorie limitrofe, come quelle degli animali e delle macchine, sottomettendosi alle loro leggi, in un modo che sfugge totalmente al suo controllo. L’individuo, ad ogni istante, è un essere anfibio, un uomo-auto, un uomo-moto, un uomo-orso, la metà di un connubio scomodo e pericoloso, però temporaneamente indissolubile. L’indipendenza è un ideale fisiologicamente irrealizzabile, perché solo la schiavitù, mediante il compito che ci assegna, ci rende attivi, presenti e riconoscibili. L’oppressione è una condizione costante, da cui non ci si può liberare: tutt’al più ci è concesso di spezzare la monotonia, decidendo di cambiarne la fonte. Il passaggio, però, non è mai facile, è uno sradicamento traumatico, che, sotto la spinta del terrore, ci consegna con disperazione ad un nuovo incubo. L è un’avventura labirintica, nella quale l’infelicità è il riflesso, multiforme ma spento, dei nostri limiti e della nostra irrazionale lotta per superarli, a dispetto di un’evidenza perennemente infausta.
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