Regia di David France vedi scheda film
C’è chi ce l’ha fatta. E si mette a raccontare la propria storia, attraverso immagini riaffiorate dal passato. Scene di lotta i cui protagonisti hanno conosciuto destini diversi. Molti non ci sono più. In quindici anni, dal 1981 al 1996, l’AIDS non ha mai smesso di mietere vittime. Con la stessa determinazione, migliaia di persone, negli Stati Uniti, hanno deciso di reagire, per sensibilizzare l’opinione pubblica e il mondo della politica su un problema che, per tutti loro, significava una condanna a morte dilazionata nel tempo. Act Up è il nome di un’organizzazione di attivisti gay, sorta a New York intorno alla metà degli anni ottanta, i cui esponenti si sono battuti strenuamente per il diritto ad essere presi in considerazione, aiutati, e magari curati. Hanno sottoposto governanti e scienziati ad una pressione incessante, affinché la ricerca di una terapia assumesse, nei loro programmi, il ruolo di priorità assoluta. Hanno manifestato in modo pacifico o irruento. Hanno condotto pacati colloqui con la controparte ed hanno urlato nelle piazze. I filmati di repertorio raccolti da David France in questo documentario – nominato all’Oscar 2013 – ritraggono i vari istanti di una battaglia che si è nutrita della straordinaria forza delle parole, per tradursi in una travolgente inondazione di dolore, un’ondata inarrestabile tracimante nelle strade e nei palazzi del potere. Combattere per la propria pelle, sfidando i pregiudizi e l’indifferenza della maggioranza: una guerra durissima, che diventa tutt’uno con la vita individuale, fatta di sofferenza fisica e morale, di paura per un male che cova silenziosamente dentro il corpo, e di strazio per la perdita di tanti giovani amici. Il sinistro ticchettio di una bomba orologeria sembra scandire il ritmo di un racconto in cui gli slogan, i comizi e le iniziative di rivolta sono le rabbiose fasi di un’agonia collettiva, che proclama a gran voce la disumana iniquità di un sistema socioeconomico basato sui grandi interessi finanziari, e sul perbenismo dei tradizionali modelli borghesi. Nell’America di George Bush sr., essere stati contagiati dal virus è considerato come il frutto dei comportamenti sbagliati di una minoranza, e in quanto conseguenza di una colpa di pochi, non merita attenzione. Riuscire a fare breccia in questo muro è la missione che, nella storia di How to Survive a Plague, funge da solidissimo asse portante: l’azione si sviluppa rigorosamente lungo la linea di un progetto che punta, senza incertezze, in una ed una sola direzione. Ogni decisione è perfettamente funzionale a quel preciso traguardo, che non viene mai perso di vista. E anche l’obiettivo del regista resta puntato su quell’impegno quotidiano, che viene seguito da vicino, passo dopo passo, con la stessa tensione di chi lo sta portando avanti, sapendo che il tempo stringe, mentre il bilancio della pandemia continua a salire. I cadaveri tappezzano le strade delle città: sono i tappeti umani di macabri sit-in, che rimandano ad una atroce realtà. Si cade a terra come mosche, sotto gli occhi degli assassini. Anche ai piedi dell’altare, davanti a un arcivescovo che lancia anatemi contro l’uso del profilattico. Si mette in scena un’impressionante finzione, per rappresentare una tragedia vera. Per colpire lo sguardo con la forza del contrasto, con la drammaticità dell’evento inatteso. Esattamente come nel cinema. Per rendere evidente l’invisibile. Che, in questo in caso, è il microscopico fantasma di un virus micidiale.
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