Regia di Jeff Orlowski vedi scheda film
«Non abbiamo un problema di politica, di economia o di società. Abbiamo un problema di percezione». James Balog è un fotografo, quindi per mestiere guarda dentro un obiettivo e ferma le immagini: le sue parole, pronunciate in conclusione del documentario, esprimono un’epifania apparentemente banale, che per lui si è trasformata in missione. Se ancora i talk show di mezzo mondo intrattengono il pubblico facendo scannare gli scettici del riscaldamento globale con gli ecologisti convinti, se ancora i media mettono in dubbio che il nostro pianeta stia subendo cambiamenti drastici in tempi rapidissimi, forse, è semplicemente perché non vedono: di questo si è accorto Balog, per questo ha deciso di darci una mano a vedere.
Piazzando una trentina di fotocamere nei pressi dei più grandi ghiacciai del globo (in Groenlandia, Islanda, Alaska e Montana), e scattando foto ogni ora, per mesi, poi per anni. Per opporre allo scetticismo lo sguardo su quanto accade: in time lapse, giustapposte in velocità, le foto sono un film dell’orrore, una stop motion dei ghiacci che si assottigliano, esauriscono e svaniscono. Jeff Orlowski, all’esordio nel lungometraggio, non nasconde il fascino per un personaggio stoicamente herzoghiano (Balog scala le pareti ghiacciate con un ginocchio mezzo sfasciato, pur di collocare l’obiettivo dove nessun’altro è arrivato a metterlo), ma non calca la mano sul carisma personale, né sul messaggio di urgenza ecologica: lascia che parlino le immagini, ci lascia guardare.
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