Regia di Vincent McEveety vedi scheda film
Con una regia lenta, ma implacabile nei ritmi di attraversamento del genere, MacEveery ci trascina con forza espressiva a quell’ora della furia che valse il titolo italiano di questo bellissimo “Firecreek”. Per rendercelo affascinante sono bastati solo due grandi nomi come Henry Fonda e Jimmy Stewart, che con loro portano tutto ciò che sono, ed un’azzeccatissima set decoration, che straordinariamente fotografata è un piacere per gli occhi e per il nostro cuore da westerners. Il rigore morale e il rigido puritanesimo sono due delle malattie mortali di quella valle di lacrime di cui i personaggi lamentano la pervivenza. A queste piaghe umane va aggiunta l’impotenza di chi si crea il proprio guscio per non venir disturbato dalla vita e nella vita. Un’impotenza a cui a poco a poco il Johnny Cobb di Jimmy Stewart si ribella, e “ribelle” in quella città desolata è una parola da abolire, una parola che viene messa in croce pure dal pastore dopo il sermone. Una parola che una volta urlata con coraggio dal protagonista quando ritorna all’alba in paese, rieccheggia in tutta quella valle di disonori e repressioni. Iniziato con una serie di pruriti sessuali, da quelli repressi a quelli liberati, il film continua cimiteriale modellando intorno ad ogni personaggio una dimensione tragica che avrà il suo corrispettivo nella “messa in scena” finale, quando tutta Firecreek diventa il teatro dell’ultimo atto tragico che noi vediamo rivivere negli occhi di un Henry fonda morente. Se a tratti è legnoso, e se le battute a volte eccedono in retorica, siamo comunque di fronte ad un classico esempio di western come luogo dell’anima, o ancora, come spazio mentale in cui convogliare, o meglio deragliare, tutti i nostri aspetti più intimi e discutibili, quelli repressi da quella valle puritana dentro la quale vivono solo codardi e uomini di sola apparenza. E se quella valle fosse l’America?
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