Regia di Benh Zeitlin vedi scheda film
Le coste umide e paludose del profondo sud della Louisiana, attorno all'enorme delta del fiume Mississippi, sono sistematicamente aggredite dalle acque del Golfo del Messico, che ad ogni uragano o inondazione ne erodono e inghiottono una parte. Per preservarle nei limiti del possibile dai rischi connessi alla frequenza di tali calamità, le autorità locali hanno deciso, a partire dagli anni '90, di erigere una diga lunga 72 miglia che taglia fuori i lembi di terra più pericolanti, considerati per lo più irrecuperabili: l'Isola di Jean Charles, di fatto ancora abitata da due dozzine di famiglie di nativi americani, è uno di questi, e in essa il regista Benh Zeitlin ha ambientato Beasts of the Southern Wild, il proprio primo lungometraggio, rinominandola Isola di Charles Doucet.
Qui, in quella che, in una definizione che ne racchiude il destino, è dai residenti chiamata Bathtub ("Grande Vasca"), la seienne Hushpuppy vive con il padre Wink; la madre invece non l'ha più, nuotata via subito dopo la sua nascita per la troppa emozione, dice lui, mentre lei la cerca ancora, la sente parlare e ci dialoga. Wink è burbero e sgraziato ma a suo modo affettuoso, e per svezzarla all'autosufficienza l'ha già sistemata in una baracca separata dalla propria ma vicina abbastanza per poterla sorvegliare, ha urgenza di avviarla alla durezza della vita e all'arte della sopravvivenza, ed ha fretta di farlo prima che il brutto male che l'ha colpito (e che cerca di nasconderle) se lo porti via.
Quando non è lì Hushpuppy è sull'erba ad ascoltare il battito del cuore degli animali che bazzicano il suo orticello, oppure è alla bottega di Miss Bathsheba, che insegna a lei ed altri suoi coetanei a curare i più deboli e a rispettare la natura, mettendoli altresì al corrente di nemici invisibili il cui ricordo è perpetuato dal mito: gli Aurochs, belve feroci simili ad enormi cinghiali con corna e zanne affilate che ai tempi dell'uomo delle caverne divoravano i bambini, ora affatto estinte ma solo ibernate tra i ghiacci polari e pronte a tornare alla carica con il loro scioglimento.
Il surriscaldamento del pianeta e gli stravolgimenti climatici che hanno portato gli uomini dell'altra parte della diga ad abbandonare la Grande Vasca a sé stessa, sono per Wink e Hushpuppy uno sprone in più per sentirsi migliori, per resistere e cercare di tirare avanti in completa autonomia. Così, quando una tempesta annunciata e temuta dà le prime inquietanti avvisaglie persuadendo la maggior parte degli altri membri della comunità a fuggire e cedere alle lusinghe della civilizzazione, a restare - oltre a loro - è un manipolo di soggetti dalla scorza dura, decisi a non arrendersi nemmeno quando l'acqua ed il fango sommergono l'intero villaggio, e compatti nel non raccogliere gli inviti sempre più insistenti ad evacuare la regione. Perché i coraggiosi non scappano di casa.
Dopo aver mosso i primi passi nel cinema con l'animazione in stop motion, Benh Zeitlin, newyorkese di nascita, s'è trasferito a New Orleans nel 2006, innamorandosene e scegliendo di renderle venticinque minuti di lirico omaggio con Glory at Sea, esordio corto nel live action intriso di una spettrale atmosfera da post-Katrina; due anni dopo, la sua attenzione si sposta una manciata di miglia a sudovest, in un altro posto dove l'apocalisse è nell'aria. La ricorrenza della tematica ambientale (cui può aggiungersi la sinistra coincidenza che vede le riprese avere inizio lo stesso giorno del disastro petrolifero della Deepwater Horizon, che il 10 aprile del 2010 scarica milioni di barili di greggio nel Golfo del Messico) non deve però trarre in inganno sulle mire del regista: Beasts of the Southern Wild (come anche Glory at Sea) non ha infatti intenti di denuncia, né ambisce a mettere in cattiva luce le scelte politiche di alcuno; nel film di Zeitlin il disastro prima si percepisce e si respira, poi letteralmente travolge, ma in primo piano c'è sempre il lato umano della faccenda, lo stoicismo di una popolazione ridotta all'osso ma orgogliosamente autoctona che si ostina a non abbandonare un territorio che sente proprio nonostante sia inesorabilmente ostile e verso il quale prova una forma di attaccamento viscerale ed ambiguo, la lotta contro la modernità di un uomo che preferisce morire piuttosto che conformarsi agli usi e alle comodità proprie di un mondo che disprezza, e – sulla scorta di tutto questo - l'approdo precoce e necessario alla maturità di una bambina che ad un diluvio carico di avversità reagisce appigliandosi al bagaglio di insegnamenti ricevuti, alla propria innata vitalità e all'inesauribile fantasia.
Tenendo la macchina da presa costantemente in bilico tra realtà ed immaginazione, tra insidie concrete e paure ancestrali, tra il racconto lineare e la divagazione onirica, Benh Zeitlin assume il punto di vista di una ragazzina sensibile ma determinata, e da un universo che pare senza tempo le concede di narrare il proprio durissimo percorso di formazione, fondato su una molteplice perdita (dei proprio cari, della propria gente, della propria terra) ma realizzato tenendo sempre una finestra aperta sui sogni e le illusioni tipiche della tenera età.
Regista evidentemente dotato, Benh Zeitlin trasforma in sceneggiatura altamente evocativa il testo teatrale Juicy and Delicious di Lucy Alibar insieme all'autrice, col musicista Dan Romer attinge alla tradizione e genera trame di epico post folk per il commento sonoro, affida il comparto video alla fotografia sgranata e naturalistica in 16 millimetri di Ben Richardson, e dà prova di fiducia ed ammirazione per il popolo ritratto selezionando tra gli abitanti della zona un intero cast di non professionisti, vincendo almeno un paio di scommesse: perché se da un lato il panettiere di New Orleans Dwight Henry si concede anima e corpo e convince nella parte del sofferente ma tignoso Wink, dall'altro Quvenzhané Wallis, nata a Houma nel giugno 2003 e sottoposta al primo provino a soli cinque anni, risulta a dir poco strabiliante, divenendo a nove la più giovane attrice protagonista candidata all'Oscar di tutti i tempi, ed ergendosi a volto simbolo di una pellicola che, dopo un 2012 colmo di trionfi (Sundance e Cannes sezione Un Certain Regard, tra gli altri), agli Academy Awards del 2013 si presenta in lizza anche in altre tre categorie, tutte importanti: miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura non originale.
L'unica nota polemica su un debutto costato quattro soldi ma meritevole della massima attenzione va riservata — come al solito — al distributore italiano che, sempre fedele all'irrispettoso vezzo di adottare poco poetiche licenze, storpia il titolo originale preferendo alla traduzione letterale ("Bestie del Selvaggio Sud") una forzatura (Re della Terra Selvaggia) che lo svuota e lo appiattisce, con il risultato (checché ne dica il regista, che bonariamente afferma di apprezzare) di alterarne il senso neutralizzandone l'immediata e affascinante doppia chiave di lettura.
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