Regia di Stephen Chbosky vedi scheda film
Noi siamo infinito, ovvero Ragazzo da parete, ovvero "le soddisfazioni di un ragazzo da tapezzeria", dove wallflowers sta anche per "timido", è il più sano antidoto ai teen-drama zuccherosi e autoreferenziali che trasmigrando nello young-adult movie non solo generano cortocircuiti sociali in campo adolescenziale, ma più cinematograficamente parlando allontano il pubblico più giovane dalla "qualità".
Nel film di Stephen Chbosky, autore, sceneggiatore e regista, il mondo teen è rappresentato con taglio indie, certo, ma non per questo forzatamente sofisticato. Più vicino ai suoi protagonisti di quello che potrebbero fare maghetti e vampirelli, Noi siamo infinito porta in scena un vissuto adolescenziale reale e palpitante senza nulla togliere ai pruriti e alle incertezze di quell'età, iperbolizzati nei film di solo taglio giovanilistico. Il nuovo “giovane Holden" della middle-class di Pittsburgh interpretato da Logan Lerman, è un affascinante character in cui, tolta la perfezione estetica dell'attore, tutti possiamo riconoscere almeno un tratto del Noi di quell'epoca. La timidezza, l'introspezione, la trasgressione, lo slancio amorevole verso la ragazza e verso gli amici, l'esperienza sessuale, anche omoerotica, il trauma infantile, i gesti estremi e il coraggio sconsiderato. Tutto questo è centrifugato dallo sguardo direttamente coinvolto e compromesso del regista, che mette così una seria ipoteca sui suoi lavori futuri, esibendo una dolcezza dello sguardo che nulla toglie alla modernità del linguaggio cinematografico, oltretutto senza scadere nel sofisticato.
Attraverso un montaggio che passa dal puramente narrativo al concettuale, innestando nella linearità dell'azione lo stacco scabroso di un flashback, di una verità nascosta che verrà a galla nel tempo, Chbosky opera un'azione psicoterapeuta, profonda e commovente, senza ricattare lo spettatore – anche se le quindicenni che mi hanno letteralmente circondato al cinema avevano solo una parola per ogni entrata in scena di Lerman: "Che cucciolo!" – allontanandosi così dallo stereotipo teeny, e avvicinandosi al drama, innescando empatie anche con il pubblico adulto.
Il film quindi è un successo. Passa attraverso i brividi emotivi (ri)evocati dalle vertigini dell'adolescenza, con la sua promiscuità, la sua sessualità euforica ed incerta, fatta più di cilecche e imperfezioni che di trionfi blasonati; con i suoi festini alcolici, con le sue giornate passate tra amici nella noia come nell'euforia, con le sue mattinate scolastiche piene di bullismi, classismi e sessismi; con le fughe, i ritorni, la schizofrenia umorale dei rapporti amicali e parentali. Con tutto ciò che innerva la sua fisiologia, l'adolescenza ci viene restituita da Stephen Chbosky con tutta la sua disarmante verità, con tutta la sua spregiudicata ambiguità, con tutto ciò che ha di plastico e fisico, e che ne fa la sua postura all'interno del mondo. Temi e motivi passati in rassegna nel film non sono quindi solo orpello narrativo, una scusa per parlare senza cognizione di causa del mondo adolescenziale, bensì sono la struttura stessa del testo filmico come del corpo adolescente.
A dare vita a questi corpi ci sono attori di una freschezza disarmante, che lasciano imbarazzati per bellezza e naturalità. Qualcuno viene da grandi produzioni young-adult, con i limiti che ciò comporta, ma una volta scaraventati nel piccolo film indie – prodotto da un saggio John Malkovich – ritrovano la dirompente capacità di resa espressiva ed emotiva dei propri personaggi, anche grazie al gioco di alchimie sviluppatesi sul set. Non solo Logan Lerman si scrolla di dosso l'etichetta di teen-idol a immagine e somiglianza di Josh Hutcherson, ma dà vita a un giovane Holden degli anni '90, anche se fortemente proiettato verso l'immaginario e l'estetica teeny del nuovo millennio, che sa colpire per grazia e freschezza. Così come la sua dolce metà, l'Emma Watson from Harry Potter, oltre a una naturale e candida bellezza ci regala un'insana rievocazione della femminilità semplice e disarmante con cui tutti abbiamo fatto i conti a quell'età e che ancora non ci siamo scrollati di dosso.
Ma se il film supera la barriera del suono è grazie a Ezra Miller, attore dichiaratamente gay/bsx/exploring ancora ampiamente sottovalutato, con cui il cinema americano dovrà pur fare i conti prima o poi e piegarsi inesorabile al fascino, al carisma e alla visceralità di un attore estremamente fisico, che fa della sua bellezza e del suo corpo, con annessi e connessi, strumenti attoriali con cui depistare ogni indagine canonica e moralmente allineata, creando ex-novo un'icona, un character con un preciso background che può portare l’analisi del vettore attoriale verso nuove interrogazioni.
Chi scrive è da sempre eastwoodiano/hackmaniano, e per indole personale duro e crudo, ma davanti alla storia semplice, bizzarra e sentita del giovane trio di “heroes” bowieani, ha sentito insospettabilmente inclinarsi il cuore e a fine film gli è venuto da dire, alla Gene Hackman de Il Socio (1993): “Vorrei innamorami. Mi manca”.
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