Regia di Nicholas Jarecki vedi scheda film
Richard Gere è a mio avviso, come ho già riferito poco tempo fa a proposito di Pierce Brosnan, uno di quegli attori divenuti divi grazie alla bellezza, ad un gradevole apparire che si sono ritrovati addosso grazie ad una generosità di cui non hanno merito (né colpa) e non certo per qualità espressive o vocazioni particolari: ma a differenza di molti altri belli miracolati, costoro hanno saputo insistere, applicarvisi, chi per orgoglio, chi per umiltà, cercando di attenuare i punti più deboli e le eventuali carenze della loro arte recitativa non particolarmente sviluppata, ottenendo nel tempo un livello artistico degno del mestiere che continuano a portare avanti con indubbio riscontro. E se anche Arbitrage non si può dire sia stato proprio un grande successo presso il mercato americano, il film si segnala tuttavia per una sua onestà di fondo nel tratteggiare le concitate (ma non fantasmagoriche o improbabili come accade spesso nella finzione, grazie in questo caso ad una narrazione che si mantiene pacata e realista e non punta a colpi di scena forzati che giocano sull'emotività dello spettatore) manovre di un manager sessantenne brillante ed arricchito sulle spalle di ignari risparmiatori in buona fede. E tutto per per liberarsi, e dunque "arbitraggiare" gli investimenti arrischiati che caratterizzano il suo portafoglio strategico, che sta andando velocemente in fumo a causa della crisi, ma pure del fatto che le sue previsioni non si stanno avverando, e che, da bravo manager scaltro, non vuole trovarsi lui col cerino in mano un attimo prima di bruciarsi.
Le cose si complicano quando una sera Robert Miller (questo il suo nome), in auto con la giovane splendida amante e gallerista d’arte francese (la meravigliosa, inarrivabile Laetitia Casta) urta per distrazione lo zoccolo di un marciapiede rialzato in galleria e la sua auto si ribalta violentemente: egli ne esce piuttosto ammaccato ma vivo; la sua amante muore sul colpo. Nella fretta, solo e senza alcun testimone, decide che non puo’ farsi coinvolgere ufficialmente in una storia che metterebbe a repentaglio la propria organizzata serenità familiare e, con la complicità del figlio di un dipendente, riesce a sottrarsi alle meticolose indagini di uno scaltro commissario (un Tim Roth qui un po’ sprecato o almeno sottoutilizzato in un ruolo che rimane solo abbozzato), che sa già tutto e deve solo trovare il modo più efficace per incastrare la sua preda.
Gere vanta una carriera costellata di personaggi negativi, doppiogiochisti, sprezzanti, spesso molto riusciti: l’aspetto piu’ convincente, curioso ed insolito di questo thriller che è tutto fuorché adrenalinico, ma anzi dallo svolgimento controllatissimo e quasi sottotono, che si circonda tuttavia di atmosfere noir piuttosto coinvolgenti e quasi intriganti, è quella di disegnare un personaggio contraddittorio che non risulta tuttavia il solito mostro sprezzante di cattiveria e sopra le righe: piuttosto una persona doppiogiochista, bugiarda e falsa come lo siamo in tanti oggi, chi più chi meno, per sopravvivere e mantenersi al di sopra della massa, cercando di cavalcare quel successo sempre effimero di cui non si è mai sazi. Una parte che un Gere in gran forma fisica gestisce alla perfezione, evitando gigionismi e puntando invece all’essenzialità, conferendo al suo personaggio sempre in bilico sull’orlo del burrone del crack finanziario e familiare, una credibilità che non risultava per nulla scontata.
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