Regia di Nicholas Jarecki vedi scheda film
Un intramontabile Gere con niente intorno. A circondarlo è il deserto abbondantemente calpestato del financial thriller, appena cosparso di una spruzzata di questione morale e problematiche sociali che non basta, però, a fornire all’opera la necessaria dose di realismo contemporaneo. Il psicodramma che, altrove - come ad esempio in Margin Call - è in grado di convertire gli spettri della crisi economica in dilemmi che attanagliano l’anima, si risolve qui in una vicenda di compravendite in cui tutto si può acquistare, in famiglia e sul lavoro. Un manager usa il denaro per evitare lo scandalo e sottrarsi a grossi guai giudiziari. L’evento da cui tutto ha inizio ricorda da vicino l’incidente di Chappaquiddick, con il tycoon Robert Miller al posto del senatore Ted Kennedy, e una giovane gallerista francese sponsorizzata dal magnate (nonché sua amante) chiamata ad interpretare il ruolo della vittima innocente di un potere maschilista. Ci piacerebbe che il film riuscisse a guardare oltre le solite manovre che, da dietro le quinte, gestiscono il mondo attraverso l’arma del denaro. Questa, ben inteso, non è la solita saga che parla della ricchezza e della corruzione in termini di stirpi e di imperi. Si distingue, infatti, per la natura momentanea ed individuale della faccenda, incentrata sul protagonista, e che solo marginalmente investe i restanti personaggi: una personalizzazione a cui, però, aveva già provveduto, in maniera ben più convincente e radicale, il Cronenberg di Cosmopolis, e che qui, invece, ricompare in una veste annacquata, come il triste giallo di un uomo solo, diluito, per altro, in un intimismo piuttosto sbiadito. Una forma di desolazione tiene prigioniero il racconto, impedendogli di spingersi al di là della pacata evoluzione della trama, che coincide con lo sviluppo del complotto, senza aggiungere alcun pensiero collaterale. Una stanca forma di squallore emerge dal fondo per cristallizzare il discorso, bloccando le azioni e le parole nei percorsi obbligati dei segreti destinati a sciogliersi in rivelazioni, e dei tradimenti che finiscono per ritorcersi contro chi li ha commessi. Lo spirito è volutamente dimesso ed il tono è di inequivocabile condanna, ma troppi sono gli accenti consolatori a cui la narrazione si appiglia nel tentativo di darsi un carattere vagamente populista che strappi consensi senza tante discussioni. Arbitrage è il potenziale grande film a cui gli affanni ed i timori della globalizzazione hanno tolto il fiato: un noir che, paradossalmente, non si azzarda a scavare nei bassifondi della modernità, ed ha paura di affrontare i nuovi fantasmi con il coraggio, un po’ rivoluzionario, un po’ masochista, di chi non si fida dei lieti fini, nemmeno quando sono saggiamente venati di ipocrisia.
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