Regia di Scott Hicks vedi scheda film
Pronti, puntare, fuoco!
Il bersaglio - troppo, troppo comodo - con la sagoma (senz’ombra di dubbio più comunicativa di quella in carne e ossa) del bambolo/statuino di cera Zac Efron è presto traforabile da una serie più o meno cattiva seppure premeditata di battute da sparare a colpo sicuro.
Se questo tremendo film doveva in qualche (incomprensibile) modo segnare una tappa del percorso di maturazione e quasi riabilitazione dell’idolatrato beniamino di High School Musical (l'Orrore! l'Orrore! ...), ebbene, ha certo mancato l’obiettivo, riuscendo anzi, se possibile, ad affossare ogni buon (?) proposito di rivederne e magari rivalutarne le prestazioni. Niente da fare. Zac Efron sta alla storia della recitazione come Nicholas Sparks sta a quella della letteratura: trascurabili, praticamente nulli (e uno “degno” compare dell’altro nei rispettivi campi), entrambi ascrivibili ad altre, risibili, sotto-sottocategorie. Ma hanno seguiti enormi, e fan assatanati pronti a tutto. Benissimo, si abbia la decenza di non spacciarli per altro, però.
Ho cercato il tuo nome (titolo originale, sottilmente inquietante per l’apparente innocuità: The Lucky One) si svolge in una mortifera dimensione soap-operistica, caratterizzata da volti di quart’ordine e biecamente percorsa da soffusi, sospirosi flussi emozionali incanalati in toni caramellosi che hanno il puzzo di stantio e rancido sapore.
La trama, già di per sé alquanto ridicola, è annacquata da incredibili svolte che sfociano in una collaudata deriva composta di ricattatori sentimentalismi e struggimenti profusi senza soluzione di continuità. Il registro è quello del lezioso dramma amoroso irto di ostacoli e travagli - sia legati alle misteriose vie del destino sia causati da contrapposte volontà - che maturano l’attesto lieto fine. Che non è neanche l’aspetto peggiore, visti il contesto e la maniera in cui s’è venuto a creare. Questo tizio, coraggioso marine, oltre ad essere chiaramente uno stalker, campa sulle disgrazie degli altri, seminando sfighe e morte ad hoc: così si prende la sorella di un altro, e la moglie e il figlio di un altro ancora. Che bello, la famigliuola felice da Mulino Bianco è bell’e fatta.
Nella figura del protagonista si esagera per accumulo, poiché è un essere perfetto, un cyborg praticamente, dai mille e mille talenti che MacGyver in confronto è un incapace acclarato (tant’è che anche la stessa futura compagna esprime dubbi su cotanta manifesta perfezione): è un marine forte e leale, gli piace camminare (infatti per raggiungere la tipa se la fa a piedi dal Colorado alla Louisiana!), sa addestrare cani, suona il piano, non gl’interessa il danaro, è sempre buono e gentile, ripara trattori, aggiusta barche a motore, ristruttura case, psicanalizza fobie infantili naturalmente curandole in un battibaleno. E poi ha sempre un aspetto lindo, anche questo perfetto, sia che si trovi nel bel mezzo della battaglia sia che vada a passeggio per gli adorabili, bellissimi viottoli di un’ambientazione che definire idealmente bucolica è poco. Inutile dire che l’espressione di Efron - un misto tra l’ebetismo acuto e una fissità da cui cola splendido/splendente languore a ogni inquadratura - è sempre una e una sola, buona (?) per tutte le occasioni. Ma quel volto efebico/intontito da bravo ragazzo è lì apposta, per fare stragi di cuori.
Come il suo personaggio, che conquista quello della biondina, separata e infelice per le perdita del caro fratello e con figlioletto intelligente e sensibile a carico. Dopotutto, il lungo tragitto sarà pur valso a qualcosa! La donna è interpretata da tale Taylor Schilling, insipida e anonima; cerca invano di darsi un tono da attrice con un’isterica scena in cui sbatte a destra e a manca oggetti senza che sia nemmeno per un secondo credibile.
Nel cast da registrare la presenza(/assenza) di Blythe Danner, nel ruolo della nonna saggia, su cui è bene stendere un velo pietoso, sotto cui va nascosto anche il misconosciuto, televisivo Jay R. Ferguson che, poverino, ha la balorda parte del misero antagonista, calibrata sugli insulsi livelli delle peggiori soap opera, ma con meno pathos dei drammoni alla Mario Merola.
Le musiche tediose e melense di Mark Isham ben si adattano alla “commovente” diffusa atmosfera generale di un film che rappresenta inoltre il punto più basso della carriera del sopravvalutato Scott Hicks, responsabile di una regia banale e banalmente pregna di richiami atti a colorare con abbellimenti pseudo-coinvolgenti una vicenda smorta. Direzione, in sintesi, svogliata (e come dargli torto), ed ultrapiatta, ma ad alta definizione di patetica, fintissima passionalità.
L'ultima considerazione riguarda la produttrice, Denise DiNovi: passare dal miglior Tim Burton a questa roba qui non è cosa di cui potersi vantare ...
Un’altra sagoma da buttare giù.
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