Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film
Non volevo minimamente parlarne: amo talmente tanto il cinema italiano, rispetto in maniera abnorme Bertolucci, ho sofferto per la sua malattia. Ma non si può ritenere lecita un'operazione che io considero immorale: prendi un ridicolo libretto del più pompato e piatto, banale, scontato, scadente, ovvio, senza idee e falsamente moralista scrittore (?) italiano; assumi due giovani che prendi dopo un interminabile casting in giro per l'Italia (alla faccia della sedia...); chiedi contributi alla Medusa film e fatti produrre il film da Fausto Brizzi (!!!), Saverio Costanzo e co.; assumi Piersanti (Piersanti ? Piersanti ? Ma dico, le hai mai ascoltate le sue musiche invadenti, barocche, in contrasto con la tua opera da sempre minimalista ? Berrnardo, perché? Perché?); bene, prendi tutto questo, poi fai partire una straordinaria (ancorchè ingiustificata: in fondo, cosa racconta il film ? Che non è possibile redimere una tossicodipendente ? Che la famiglia è il "grande assente" della società italiana ?) campagna stampa, con clip accattivanti e canzone pre-confezionata ad hoc: se non sarà un successo, che importa ? Tanto, esce (di proposito ?) in ritardo per tutti i grandi premi (e fuori dalla cinquina per gli oscar...) e comunque non smetteranno di discuterne. E poi, che c'è di male ? In fondo, mica era tanto meglio "The dreamers" ? Ma io non te l'ho detto, caro maestro, che l'ho tagliuzzato ? Ed ho eliminato tutto il contesto? Sì, ho fatto come disse quel grande critico friulano ormai non più tra noi: andava bene il cortometraggio tra tre ragazzi, perfetto per sognarci, ricamare su ciò che sarebbe rimasto fuori campo, il contesto era fittizio. Ma è lo stesso in questo caso. In fondo, il raccontino di Ammaniti si prestava ad un lavoro sui cinquanta minuti: un giovane brufoloso lascia credere alla famiglia di essere con la scuola alla settimana bianca, invece si chiude in cantina deciso a bivaccare per tutti i sette giorni. Peccato che in quella stessa topaia (???) arrivi Olivia dalla leonina capigliatura, senza essersi preannunciata. E Lorenzo, che riconosce in questa ragazza energica e a suo modo dolce, la sorellastra che non vedeva dall'infanzia, si trova costretto a convicerci per sette lunghissimi giorni: i migliori della sua vita. E', in fondo, un altro racconto di formazione, questo di Bertolucci: se ne "La luna" il significativo momento incestuoso assumeva la ragione di un segno di vita per Jill Clayburgh, qui il velato desiderio è soltanto un pretesto per spiare in primo piano, seguendolo, il ragazzo romano che ancora "non sa di avere una personalità diversa dalla massa". Tutto il mondo cinematografico di Bertolucci è da sempre dominato dallo scontro tra due culture: in genere, i mondi collidenti sono quello europeo ed americano (Brando e la compianta Schneider), (Michel Pitt-Green e Garrell), ma anche asiatica- occidentale ("Piccolo Budda" e "L'ultimo imperatore"), addirittura africana - anglosassone (nel meraviglioso "L'assedio"). Per rafforzare questo scontro, egli pone a confronto due personaggi in un ambiente ad essi nuovo (la casa "mandala " nel citato assedio, la Siena minimalmente bucolica di "Io ballo da sola", la Roma putrescente di "La luna", il pluriconosciuto appartamento parigino de "Ultimo tango", la sconfinata landa africana de "Il tè nel deserto"). In ognuno dei suoi lavori, dunque, perpetua sempre la stessa storia, talvolta riuscendo a fornire un quadro inquietante della incomunicabilità tra due culture impossibilitate a comprendersi. I suoi temi, in una carriera lunga ma non debordante, sono gli stessi di Nanni Moretti: lotta per il riconoscimento generazionale (in ogni opera parlano i giovani), incomunicabilità, incapacità di lasciarsi andare, prendere decisioni, finale fittizio e da decidere fuori della sala, oltre i titoli di testa. Entrambi, sono figli del '68, entrambi guardano a Godard (l'uno dichiarandolo, l'altro negandolo). Entrambi, purtroppo, invecchiano male. E sono una delle ragioni della decadenza cinematografica italiana. Se, da un lato, la Penisola non è più quella dei loro esordi e l'italiano medio non esiste più (impossibile schematizzare il pluralismo ecumenico), è pur vero che gli americani hanno saputo evolversi, coltivare storie, più che personaggi. Bertolucci, che pure ha girato quasi sempre fuori d'Italia, è perennemente indeciso tra i due ragazzi: non riesce a dichiarare tutta la sua simpatia ad uno dei due, non sceglie di raccontare, non si schiera da una parte. E i due mondi (per la prima volta due speculari universi mai antitetici) crollano nel finale, che un colpo d'ala non riesce a rendere credibile. Il maestro ha dichiarato di aver pensato l'opera per il 3D: il suo rifiuto a provarci, la sua rinnovata attenzione per la desueta (pur se bellissima) fotografia in 35 mm, l'uso continuo di carrellate, jimmy e macchine fisse rende l'opera datata. Se avesse provato l'innovazione tecnologica, l'operazione avrebbe potuto godere di giustifica: in fondo, girare un film è una malattia. Da vivere, sicuramente, ma anche pericolosa da abbandonare. Il difetto principale, però, sta nel manico: dei film portati sullo schermo dai testi di Ammaniti, nessuno ha mai impressionato: lo scrittore romano (classico figlio di papà colpito sulla via di damasco dal demone scrittorio) per dare forza alle sue storie si rifugia in contesti favolistici (gli stessi che determinarono ne "L'ultimo capodanno" il primo grande fallimento di Risi figlio), ma senza opportuno stratagemma, questi stessi contesti diventano parodici, quando non tracimano sul ridicolo involontario (ed in fondo, tutte le giustificazioni di Lorenzo con la madre per evitare di essere scoperto sono comiche...). Il fatto è che una parte della critica (romana, meglio "romanocentrica") pensò di ritrovare tratti che furono di Flaiano nelle sue prime strutture fumettistiche avallando opere come "Branchie" quasi fossero racconti rodati da mano esperta. Ammaniti, dunque, continuò il suo percorso, trovando anche lettori cui piaceva, ma senza cercare di crescere. Nel baratro trascina persino Bertolucci (ma cosa sarebbe potuto essere "Io e te" se diretto, più o meno allo stesso modo, da un emerito sconosciuto ? O se dietro alla mdp ci fossero stati i Dardenne ?) che risulta così stantio, retrogrado, superato. E se da un lato, ci si può ritrovare a lodare gli interpreti, ben diretti (ma lasciamo perdere i paragoni: con il grande Bernardo troppi esordi sono rimasti tali..), dall'altro resta una sola domanda : quale il senso morale ? Ai posteri, come sempre, la parola conclusiva.
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