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Io e te

Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film

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La recensione su Io e te

di M Valdemar
8 stelle

Lo scantinato come bene rifugio di una condizione fragile e complessa, compressa tra l’opprimente nebulosa autocoscienza, l’incapacità di affrontarla e il terrore di venire smascherati. Più profonde sono le ferite maggiore è il tormento. Ecco che il luogo fisico, posto al di sotto del “normale” piano di coabitazione sociale, riflette lo stato emotivo: interrarsi per sfuggire, per ingannare e ingannarsi, per (credere-immaginare-desiderare di) stare bene con se stessi. Da soli. Soli. I pensieri, gli sguardi, le voci, i più comuni di segni di appartenenza civile, fluiscono in un magma inaccessibile agli altri. Non sentire, non ascoltare, non capire, rifiutarsi. Le cuffie che sparano musica ad alto volume demarcano una dolce, confortevole zona da non oltrepassare: il distacco.
Non parlatemi, non guardatemi, non rompete, evitatemi. Sto bene così. Da solo.
Solo che il disagio, anche nei momenti più bui, non interrompe affatto gli affetti, anzi, sono un costante motorino che alimenta scelte e problemi; e bugie. Perché non soltanto c’è la grande paura di mostrare le proprie debolezze, quelle per cui ci si vergogna oltremodo e fa sentire di essere diversi, inferiori, ma soprattutto di deludere, far angosciare chi ha la “sciagurata” sventura di amare quel diverso. Orchestrare espedienti, mentire, costruire barriere, ingegnarsi sempre e sempre pronti: quasi un divertimento, se non servissero a celare il malessere. E poi poter dare sfogo a tutta la propria, interminabile, serie di manie (rifugi noti perenni e subitaneamente fruibili): l’ordine, i numeri, le preferenze, i libri, l’oscurità, la luce, le ritualità. Tutto obbediente ad un perverso sistema caotico eppure esclusivo, unico; ed unicamente accettabile.
Lorenzo, il solitario inquieto quattordicenne - madre apprensiva padre assente nonna all’ospizio - mette le cose nel suo ordine; configura il programma così come elaborato riempiendo gli spazi fisici con gli oggetti, i cimeli, gli alimenti necessari a riempire, soddisfacendone pulsioni, desideri ma anche incertezze, timori, tremori, gli angusti(ati) spazi psichici. Con la massa non riesce a starci; con l’idea di accrescere la preoccupazione della mamma neppure. E la settimana bianca si tramuta in un’occasione imperdibile. Assurdo stratagemma per assurde paturnie: è la realtà ad essere assurda. Impossibile, pertanto, non scavare nello stesso solco dell’assurdo, laddove tutti fanno l’impossibile per non guardare.
Tutto perfetto, no? I libri, l’atmosfera, l’aria, la puzza di chiuso, le incrostazioni sul lavandino, la polvere che volando disegna sinuose rarefatte nuvole di vissuto, il pc, la corrente elettrica, il rosso divano, la coca cola da agitare freneticamente ed ingurgitare tutta d’un fiato, le formiche da scrutare con la lente. E poi le assenze: le presenze che non domandano, non chiedono, non pretendono, non assillano, non giudicano.
Peccato che ad interrompere l’angolo di cielo creato all’inferno(tto) sopraggiunga quell’essere esemplare di femmina, Olivia: sorellastra, bionda, nevrastenica, sboccata, appariscente, tossica.
Convivenza difficile, rischiosa, dagli effetti imprevedibili: due figure che più lontane non si può. Lorenzo non la sopporta, Olivia lo definisce psicopatico. Eppure, nella forzata situazione venutasi per caso a creare, scoprono ed imparano a conoscersi, per mezzo delle sofferenze, differenti ma che li accomuna in uno stato di blocco dal quale non riescono ad uscire. Lorenzo libera le formiche e la lente la sposta su di lei, enigmatica, affascinante. Interessante. Olivia in astinenza pena, vomita, impreca, si contorce; un attimo prima ride, balla, si diverte, prende in giro, quello dopo urla, scalpita, si racchiude in posizione fetale al caldo di una coperta di fortuna. Ma in quel ragazzino così problematico, che rappresenta e ricorda il dolore causato dal padre comune, trova un alleato sincero, un complice, un compagno di catarsi.
La promessa reciproca, prima di salutarsi (“non nasconderti più” - “non drogarti più”) sembra autentica, frutto di un percorso arduo tuttavia terminato. Forse sarà rispettata forse no (le tentazioni di tornare nel sicuro limbo sono le più facili). Ma un barlume, un’istantanea (quella finale: bellissima), un sottile, leggero spalancar di occhi e piegar di labbra quantomeno instilla la possibilità.
Accompagnato da una colonna sonora che è il terzo protagonista (magnifico il “duetto” virtuale David Bowie - Tea Falco con la versione italiana di Space Oddity che pare narrare proprio la storia delle due anime sole Lorenzo - Olivia), agile a sottolineare i diversi momenti e stati d’animo, Bernardo Bertolucci (che piacere vedere sullo schermo: “un film di”!) dirige con maestria (e non potrebbe essere altrimenti) una storia “piccola”, minore, racchiusa perlopiù in uno spazio limitato e chiuso, dalla posizione attuale “seduta”: le inquadrature raccontano, spiegano, filmano dal basso, ferme in un’incorniciatura a media altezza ma leste ad aprirsi, fiere e gioiose, verso l’alto. Primi, primissimi piani a rendere vivi e veri i personaggi e partecipe il pubblico; qualche svolazzo e virtuosismo ad imprimere il marchio. E che marchio. Il regista trascina con la sua forza e nel mentre si fa trascinare, influenzare dalla personalità dei suoi attori, sconosciuti scelti con certosina cura. Una scelta eccellente: impossibile immaginare la recitazione “recitata”, finta, dei soliti noti. I due, Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco sono perfetti, e non perché perfettamente credibili ma proprio perché sembra  - è palese - ci abbiano messo molto di loro nei personaggi.
Se di Antinori colpiscono quegli occhi distanti, grandi, che pare possano racchiudere una vasta gamma di emozioni che va tranquillamente dalla mansuetudine alla follia (i più, ed anche il regista, hanno fatto il nome di Malcolm McDowell; io suggerirei anche Michael Shannon), Tea Falco è una forza della natura: travolgente, magnetica, bravissima, bellissima seppur (anzi: proprio perché) imperfetta, naturale, a suo modo unica. Entrambi recitano e stanno in scena con estrema naturalezza e semplicità, anche se si nota la mole di lavoro che sta dietro all’intera opera. Che deve molto anche all’accurata minimale scenografia e all’ottima fotografia di Fabio Cianchetti, abile a variare tonalità ed agire in armonia con le idee concettuali di Bertolucci. La sceneggiatura, tratta dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti (coautore del copione assieme allo stesso regista e a Umberto Contarello e Francesca Marciano), è attenta a definire e tratteggiare i protagonisti senza curarsi troppo di essere “attraente” ed aver presa facile sul pubblico: gli elementi sono al loro posto, e forniscono un quadro verosimile, non appesantito da pretese psicologiche fuori luogo e fuori tempo.
Un ritorno, quello di Bernardo Bertolucci, assoluto fuoriclasse, quanto mai atteso e desiderato. E con la speranza di poterlo rivedere in azione quanto prima. Ne abbiamo bisogno.

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