Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film
Una ne fa, cento ne pensa. Di questo film possiamo iniziarne a parlare adesso e finiamo tra cent’anni. Bertolucci torna a far danni procurando materiale a iosa per i dibattiti dei critici che sicuramente si divideranno in pro e contro, per la mente degli adolescenti alle prese con i primi film d’autore, per le conversazioni appassionate dei cinefili bohemien. Perché sotto (ma anche sopra, dietro, dentro, fuori e tutt’intorno) alla storia di una semplicità quasi banale quanto accattivante di un quattordicenne che si rifugia per una settimana nella cantina del proprio palazzo (soggetto tratto dall’omonimo romanzo di Ammaniti) si nascondono una miriade di spunti e argomenti di riflessione, che mi perdonerete se in questa anteprima mancherò di elencarne qualcuno. Ma una cosa è importante precisarla sin da subito: i vari temi toccati da Bernardo vengono tutti affrontati e portati a termine in maniera puntuale e soprattutto sono perfettamente coerenti gli uni con gli altri e contribuiscono in maniera definitiva a sintetizzare un’opera cinematografica di rara organicità. Mi gira la testa se penso alla quantità di chiavi di lettura che si potrebbero dare a questo film, così per conservare quel poco di salute mentale che mi resta è bene che ne scelga una, e magari proprio quella che mi piace di più. Come per la divina commedia, in cui vi si può leggere il semplice resoconto di un viaggio oppure la grande metafora della vita e dell’uomo, anche in Io e te possiamo scegliere di vedervi l’altrettanto semplice (ma affascinante) storia di Lorenzo che finge di andare in montagna con la scuola per rifugiarsi invece in uno spazio buio e angusto e passarvi una settimana di solitudine e tranquillità, oppure l’opera terapeutica di un autore che aveva perso i contatti con il mondo e aveva bisogno di realizzare un film per riscoprire il “mare”. In realtà Lorenzo, per dirla come lo dice Olivia (una debuttante Tea Falco, bella e da dannazione eterna, ricorda molto le muse tanto care a Bertolucci dalle movenze e lineamenti sfuggevoli e inafferrabili come Eva Green e Liv Tyler), la sorellastra maggiore che proprio in quei giorni sceglie lo scantinato come luogo in cui tentare la disintossicazione a lungo rimandata, deve scoprire la vita; il mare invece l’ha scoperto Antoine Duanelle alla fine del primo episodio del ciclo a lui dedicato, con cui questo film ha qualcosa in comune. All’inizio l’ambientazione contemporanea, la fotografia standardizzata e gli attori evidentemente non professionisti destabilizzano non poco le aspettative che si riservano ad un nuovo film del regista di The Dreamers, de L’ultimo imperatore, Piccolo Buddha o Io ballo da sola, ma poco dopo si intuisce che il ragazzo dalla faccia tutta brufoli nasconde qualcosa, una verità interiore che vogliamo scoprire. Una verità che si nasconde (e si rivela) nella sua metodicità, nella sua capacità di organizzazione e nella sua furbizia. Lorenzo beve succo alla pera in vetro, mangia carciofini e tonno in scatola, e di ogni confezione necessita di sette unità, “sette di tutto”. Si ripensa alla prima forma di cultura utensile e di praticità dell’homo sapiens, ma un homo sapiens delle origini, curioso di scoprire il mondo prima di sé stesso, atteggiamento che porta Lorenzo a formulare senza il minimo pudore domande irripetibili alla propria madre (il fantasma dell’incesto che Bertolucci lascerà aleggiare sui due protagonisti per tutta la durata del film) o a sviluppare una passione maniacale per le formiche e gli altri insetti. E salta alla mente uno dei passaggi meno noti del pensiero kantiano, in cui il filosofo rintracciava nel movimento delle fragili zampe di questi piccoli animali un senso di finezza e utilità che irrimediabilmente si deve estende a tutto il creato. “Big things have small beginnings”, come dirà tra qualche mese Michael Fassbender, dopo la distruzione del formicaio, Lorenzo, in mancanza di meglio sposta le sue attenzioni verso i dettagli del volto della sorella addormentata (allo stesso modo in cui questa osserva il volto dell’altra madre). La lente d’ingrandimento rivela una serie di particolari di cui il ragazzo non sospettava neppure l’esistenza, e di riflesso instaura un legame con Olivia che soffre fisicamente per entrambi l’agonia della resurrezione. Come vedete ho parlato poco di forma (io che ci sto così tanto attento), perché è lo stesso Bertolucci a curarsene poco, preferendo ad essa la realizzazione di un film “più semplice” e concentrare le sue attenzioni sui contenuti e le emozioni di un’uscita dal baratro buio in cui (come il Lorenzo di Amanniti) si era relegato dopo la perdita dell’uso delle gambe. Un film molto personale dunque, che certo ha difficoltà ha vincere una sfida con The Dreamers, ma che trova in questa stessa autorialità la guarentigia di collocarsi cento metri sopra la moltitudine delle commedie amare medie italiane (se c’era bisogno di precisarlo). E agli amanti cinefili che fremono, durante la scena conclusiva, alla ricerca di qualcosa anche per loro, Bertolucci dà 400 colpi di grazia con strizzata d’occhio (Fatality!) con la combo di fermo-immagine e zoom sul volto del giovane (e rinato) protagonista.
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