Regia di Stefano Mordini vedi scheda film
A secchiate di vernice. È così che Stefano Mordini dipinge la Piombino delle acciaierie, dell’emarginazione, delle incertezze affettive e della mancanza di futuro. Una stentata frammentazione è il ritmo di un racconto che non si decide a prendere una direzione, preferendo ristagnare in una pozza di dolore e dramma dal sapore indistinto. Il liquido è torbido, come quella indefinibile sensazione di vuoto che affligge le nuove generazioni. Essere giovani è difficile, in quell’ambiente dominato dal riflesso automatico del rifiuto. Lo sanno Alessio, operaio metalmeccanico, e sua sorella Anna, il cui padre se ne è andato, e che ora, semplicemente, non ce la fanno più a vivere in quel modo. Perdendo l’amicizia e non trovando l’amore vero. Illudendosi che si possa andare avanti anche così, senza più credere in nulla, forse nemmeno in se stessi. Perché non c’è solo la provincia violenta che fa male; accanto a questa, esiste quella moribonda che ti anestetizza, ti addormenta i sensi immergendo la realtà nell’atmosfera ovattata del dormiveglia, nella quale tutto sembra vero soltanto per metà. L’ambiguità è lo sfumato che attenua la durezza dell’evidenza, del fatto compiuto, che si tiene prudentemente in bilico tra la lungimiranza e la miopia. Così anche le scelte si possono improvvisare senza temere troppo per le conseguenze, che saranno sempre indeterminate, poco chiare, passibili di interpretazione. Si potranno buttare lì, sul momento, come i colori sparati sulla tela da un pittore d’avanguardia. E qualcun altro le potrà riferire, con la medesima coraggiosa avventatezza dello sperimentatore che procede a tentoni, godendosi ogni errore ed ogni attimo di esitazione. Questa storia non ha molta voglia di parlare di sé. Il discorso, d’altronde, rischierebbe di risultare senza capo né coda: sarebbero troppi i punti di arresto, le inversioni di marcia, gli sbandamenti. Tale è, infatti, il cammino zigzagante segnato dai no, costantemente deviato dalla quotidiana propensione a perdersi nelle viuzze secondarie, per trovare rifugio nella mediocrità del primo sbaglio a portata di mano. Solo che, in questo caso, l’obiettivo cinematografico fa fatica a seguirne il passo, rapito com’è dal fascino inafferrabile dei personaggi: li riprende da vicino e fissa lo sguardo su di loro, nello strenuo tentativo di capirne il carattere. Tuttavia non riesce a metterli a fuoco, e intanto rimane indietro rispetto allo sviluppo degli eventi. Il motore della narrazione emette un rombo sordo e poi si inceppa: prende la rincorsa solo per buttarsi nel fango ed iniziare ad arrancare nell’inconcludenza. Acciaio si propone come lo specchio di un mondo imbrigliato in una sfiducia senza rimedio, una prigione della coscienza da cui si può evadere soltanto trasgredendo ogni regola, e tradendo i propri principi. Un’immagine desolatamente amara, ma forse troppo opaca per essere veramente efficace.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta