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Acciaio

Regia di Stefano Mordini vedi scheda film

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La recensione su Acciaio

di LorCio
4 stelle

È la quarta trasposizione in due mesi di un romanzo italiano dopo Tutti i santi giorni, Io e te e Venuto al mondo. Non che sia un grosso problema, ma bisognerebbe rifletterci su. E bisognerebbe anche riflettere sul perché un ottimo produttore come Carlo Degli Esposti non abbia saputo sfruttare al meglio uno dei romanzi italiani più popolari dell’ultimo decennio. Probabilmente una campagna pubblicitaria più massiccia avrebbe favorito gli incassi, piuttosto modesti nella prima settimana. Un’occasione sprecata, quindi, innanzitutto da un punto di vista commerciale, perché il romanzo di Silvia Avallone aveva un potenziale molto attraente, considerando anche il fatto che sfiorò il Premio Strega nel 2010 (vinse, per quattro voti, Canale Mussolini di Antonio Pennacchi).

 

Detto questo (più che altro per dare un fondamento alle critiche sull’incapacità del cinema italiano di fare sistema e crearsi dei buoni trampolini di lancio), Acciaio è un’occasione sprecata su tutti i fronti. Il romanzo, al di là del suo valore artistico (un tantino sopravvalutato, probabilmente prolisso, ma comunque interessante e non di rado coinvolgente), aveva una struttura abbastanza adattabile al cinema (anche perché troppa letteratura italiana contemporanea viene scritta pensando al cinema, come se la possibilità di un film sia la consacrazione del proprio presunto talento) e, detto francamente, non occorreva un genio per trasporlo con diligenza e pulizia. Ci si sono messi in due a tentare il colpaccio, Stefano Mordini e Giulia Calenda, e hanno fallito.

 

C’era di tutto in Acciaio: l’amicizia femminile come simbiosi fisica e spirituale nonché vagamente ambigua, il racconto dei giovani di provincia destinati inesorabilmente alla fabbrica, l’impossibilità di un futuro per una strana commistione di inettitudine e irrealizzabilità, le povere madri di famiglia diventate tali troppo giovani e succubi dei mariti violenti o megalomani ma soprattutto egoisti, la scoperta del sesso e dell’amore come in ogni romanzo di formazione che si rispetti, le ingiustizie del sistema lavorativo ai tempi della perenne crisi, un contesto storico preciso e stimolante (l’inizio millennio), una fotografia di Piombino dura ed aspra (che non a caso suscitò polemiche).

 

Calenda e Mordini (con la collaborazione di Avallone) prosciugano tutto e preferiscono suggerire sentimenti ed emozioni attraverso i molti silenzi (che spesso sono meglio delle troppe parole di tante verbosissime sceneggiature nostrane), dimenticando però di dare un senso all’azione e di mantenere gli equilibri della storia, perdendosi per strada personaggi che non ti entrano mai nel cuore (ad eccezione, forse, dell’Alessio del sempre più bravo Michele Riondino, descritto come antieroe travolto da eventi che deve sostenere con pazienza e testardaggine) e privilegiando un approccio troppo documentaristico ad un film che dovrebbe essere soprattutto di narrazione come concetto classicamente inteso.

 

Mordini, poi, sceglie una regia troppo invasiva che gioca con audacia su primi piani intensi ma anche soffocanti, pedinando la realtà della storia con uno stile oserei dire pseudoneorealista. Il suo interesse, neanche troppo velato, sta nella rappresentazione degli operai e infatti le sequenze all’interno dell’acciaieria Lucchini sono di buon impatto, ma non è soltanto questo Acciaio e lui stesso lo sa benissimo perché dà molto spazio alla quattordicenne Anna (l’acerba e brava Anna Bellezza) e alla sua maturazione.

 

Dispiace, tanto per dirne una, non sapere qualcosa in più riguardo quelle madri sofferti che hanno immolato le proprie esistenze alla famiglia e non convince affatto il lavoro di riduzione cinematografica che sacrifica passaggi importanti (l’arresto del padre, per esempio, qui interpretato dal sempre più sprecato Massimo Popolizio) rendendo il tutto secco e privo di mordente. Ottimo, però, il reparto tecnico: fotografia del compianto Marco Onorato; montaggio di Jacopo Quadri e Marco Spoletini; scenografie dell’esperto Luciano Ricceri. Un film fiacco, fragile, debole, che ha il sapore degli appuntamenti finiti male.

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