Regia di Giuseppe Bonito vedi scheda film
Questa zitta ragazza errore resta. Pulce non conosce la grammatica. Per lei le parole hanno solo significati intrinseci, che le rendono autonome, indipendenti dal contesto. Sono condensati di pensieri tutti suoi. Talmente personali e liberi da non aver bisogno di uscirle dalla testa, per confrontarsi col mondo. Parlare non serve. Scrivere, poi, serve solo agli altri. A quelli che credono sia bene costringerla ad esprimersi come loro, in una maniera talmente convenzionale e priva di fantasia da risultare accessibile anche a loro. Il vero errore è questo: volere che quella bambina dica, quando lei non ne avverte alcuna necessità. La verità richiesta con la forza nasce storta. È il frutto di un parto innaturale, che ha imboccato una via traversa. Questa storia lo dimostra fornendo la prova di quanto la logica possa diventare un mostro, di fronte alla meravigliosa incongruità di ciò che deliberatamente ci sfugge, ciò che non vuole rivelarsi a noi. Di ciò che, come Pulce, non c’è. È inutile e dannoso cercare di ricondurre quel mistero alla nostra normalità. Quella bambina così strana, muta e chiusa in se stessa, che a volte urla ed è piena di piccole manie, è un difficile oggetto di amore. Ed un impossibile soggetto di studio. Il suo male – a patto che davvero lo sia, per lei – non si può ridurre ad un caso psichiatrico, ad un problema familiare, ad una vicenda giudiziaria. Inserirlo in una delle nostre solite categorie procedurali equivale a far torto alla sua inafferrabile unicità. Il romanzo di Gaia Rayneri, a cui il film di Giuseppe Bonito si ispira, descrive gli effetti di una perversa semplificazione razionale, applicata ad una realtà che non ci appartiene, che non possiamo interpretare, né tantomeno modificare, pretendendo di curarla. Il cosiddetto autismo è l’incarnazione stessa della incomprensibilità, del limite che – contrariamente a quanto si potrebbe pensare – è in chi sta da questa parte, e sa vedere le cose in un solo modo, superficiale ed approssimativo, come sono tutti gli atteggiamenti omologati. La narrazione pone l’accento proprio sul dramma di non poter conoscere, che rende inermi gli uni, e impropriamente armati gli altri. Un giorno vieni accusato ingiustamente, ma non sai come dimostrare la tua innocenza. Sospetti di tuo marito, e non sai come venirne a capo. Ti sottraggono alla tua famiglia, e non puoi capire perché. Tutto accade perché qualcuno si è illuso di poter sciogliere un arcano insondabile con la finta magia di formule preconfezionate, buone solo a far andare le cose secondo le sue teorie da manuale. Raccontare questa storia è facile come è facile sbagliare: il fatto e le sue conseguenze non occupano più di due righe, come si addice alla banalità, alla fretta di saltare alle conclusioni senza porsi domande. La sostanza umana è tutta racchiusa negli spazi bianchi di quello che potrebbe sembrare solo l’abbozzo di un componimento, un incipit senza romanzo, un’introduzione a cui manchi il dopo. La trama è leggera come i fili di una ragnatela. Vista da lontano sembra solo sporcizia, e nessuno si preoccupa di cosa ci sia veramente in mezzo. Lo schema è rozzamente geometrico per chi non è in grado di guardare dentro, affondando in quei silenzi, in quei ritagli di spazio che si rivolgono a noi come orbite vuote. Questo film indossa provocatoriamente la pochezza dell’apparenza, per restituircene in pieno lo squallore, l’aspetto ordinario e grigio di cui si copre la sofferenza che non si può spiegare. Le ricette pronte riducono la vita ad un dolore privo di voce. Un tormento che induce a ribellarsi facendo saltare le regole. Mettendo i cibi in padella prima di averli scongelati. Tenendo le tapparelle abbassate in pieno giorno. Provando ad essere ciò che non si è. E dimenticandosi che alla gente, in fondo, importa soltanto delle menzogne che, per quanto scontate, fanno scandalo ed accendono l’immaginazione.
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