Regia di Alina Marazzi vedi scheda film
L’infelicità di essere madre. Il senso di colpa per il fatto di sentirsi sbagliate, e di non riuscire ad amare i propri figli. L’atroce dubbio di odiarli, ed il pensiero di far loro del male. La depressione post partum è la versione estrema e patologica di un disagio che nasce dal trauma di una situazione improvvisamente mutata, di una responsabilità che emerge dal nulla e lega per la vita. Al cambiamento si sommano le pressioni esercitate da una società che, di fronte alla nascita di un bimbo, tende a concentrare l’attenzione su quest’ultimo, dimenticando le esigenze di colei che lo ha portato in grembo per tanti mesi e poi, un giorno, messo al mondo. È lei, infatti, l’essere fragile e bisognoso di cure, che non si deve lasciare solo. Il film di Alina Marazzi parte dai fatti di cronaca, e dalle testimonianze documentali per mettersi alla ricerca di un drammatico perché, che si nasconde in molte case, in molti cuori, in molti rapporti familiari. Anche quando la crisi non deflagra nella tragedia della violenza sui minori e dell’infanticidio, il problema è ben presente, e prende la forma di un buio innaturale che separa la donna dalla sua creatura, da quella che dovrebbe costituire una fonte di immensa gioia, ed invece rappresenta una gigantesca sfida che si rinnova quotidianamente e mette tanta paura. Pauline si porta dentro un enorme interrogativo, che appartiene al suo passato, e che è intrecciato col rimpianto, forse col rimorso, con il dolore di una separazione e con l’incapacità di capire. Vivere un’intera esistenza ed effettuare indagini scientifiche non è bastato a fare chiarezza. È così il suo ricordo rimane in bianco e nero, imprigionato in un momento sepolto dagli anni, che non ha potuto conoscere la luce della rievocazione, della memoria affettuosa, dello stacco temporale che riveste il vissuto di nuovi colori. Fino all’ultimo restiamo in dubbio sull’identità di quella presenza invisibile a cui la protagonista rivolge, con la mente, parole destinate a restare inascoltate, e a non ricevere alcuna risposta. Qualcuno c’è, ma non si vede, e probabilmente non sente, al di là del presente solitario di Pauline, angosciato dagli strascichi di un male che ha lasciato in lei un immane vuoto, ansioso di conforto e di certezze. Un’anima così tormentata non può che specchiarsi in un’altra compagna di sventura, una giovane ballerina in conflitto con la sua condizione di madre, alla quale imputa, con rancoroso avvilimento, il blocco della sua carriera, e la fine della sua voglia di fare. Non sembrerebbe facile affrontare un argomento così delicato con il mezzo della finzione cinematografica, dell’interpretazione che immagina dall’esterno, con partecipazione attenta ma serena, l’oscura sostanza di un lancinante mistero. L’autrice ci dimostra invece che guardare, anche in questo caso, è un’impresa tecnicamente facile, che necessita solo della giusta dose di onestà e coraggio. Per aprire la finestra, su questo cupo capitolo della storia del nostro mondo, basta non temere di cogliere i segnali dei grandi pericoli nei piccoli inquietanti dettagli del nostro agire; e viceversa, saper relativizzare le trappole che la psiche ci tende, e che vanno viste come utili indizi sul carattere delle nostre debolezze. La normalità ha i contorni sfumati, frastagliati da tante deviazioni e stonature, che disegnano il travagliato percorso della scoperta di sé. Lungo la strada, può capitare di cadere, rovinosamente, trascinando altri con sé nell’abisso. Tutto parla di te non è un’esortazione a perdonare i delitti, o a cancellare, dalla questione, i risvolti penali e psichiatrici. È solo un prudente invito a riconoscere, in ognuno di noi, la potenziale fonte di una indistinta disperazione che, in un attimo, può tracimare in mostruosa follia.
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