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Il comandante e la cicogna

Regia di Silvio Soldini vedi scheda film

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La recensione su Il comandante e la cicogna

di OGM
6 stelle

Per certi versi, sembra di rivedere “A casa nostra”. Con Luca Zingaretti che, ritorna, più corrotto che mai, sullo sfondo di una Torino malinconica e stanca, nuova frontiera del degrado del nostro paese, dopo lo storico declino della Milano da bere. Il suo avvocato Malaffano, dal nome significativamente ispirato all’opinione che l’italiano medio ha della classe politica e del potere in generale, è il personaggio tipo della parte più logora ed avvilente della commedia nostrana contemporanea: quel cinquantenne tanto dandy nell’atteggiamento, quanto ignorante nella sostanza, che di professione fa il difensore dell’inestinguibile popolo di tangentopoli, è ormai l’incarnazione un po’ claunesca di un abusato luogo comune nella rappresentazione dei vizi italici. Lui, ricco e disonesto, è mediocre come il destino della maggioranza, formata da tanti poveri ma onesti, costretti a dedicarsi a tempo pieno alla famigerata arte di arrangiarsi. Così la stravaganza eccentrica di una spregevole élite si mescola a quella bonacciona e spesso creativa della gente qualunque, che quotidianamente si arrabatta tra amori difficili, passioni sbagliate e desideri frustrati, cercando di tenere insieme i pezzi di una vita conquistata a morsi. A bordo del carrozzone cigolante si trovano l’idraulico Leone Buonvento, padre vedovo di due problematici  figli adolescenti, una giovane artista incompresa di nome Diana Rigamonti, ed Amanzio Zosulich, che vive di rendita ed ammazza la noia leggendo libri a sbafo e tentando di imparare tutte le lingue del mondo.  Lo stile di Soldini reca un’impronta carnevalesca, che sdrammatizza le ingiustizie con le sottolineature surreali tipiche del sogno. La caricatura, in questo modo, si fa poesia, mantenendo la semplicità di chi, con saggia autoironia, riesce a rendere adorabili i propri limiti: l’ingenuità, l’inflessione dialettale, l’impossibilità di ottenere successo e farsi valere. La pittoresca bizzarria di questo ritratto corale è lo sfondo – affollato e naif – di un racconto intriso di retorica nostalgia per gli ideali del Risorgimento e del Romanticismo, così tristemente naufragati nell’odierna realtà di furfanti e poveri diavoli. Garibaldi e Leopardi, dalla cima dei loro monumenti, assistono, sospirando d’impotenza, allo squallido spettacolo del nostro mondo, vedendoci come uomini e cittadini immaturi, incapaci di fare grandi cose, e anche solo di pensarle. Tutti i nostri miseri affanni sono indirizzati al male o votati al fallimento, e a ciò non esiste rimedio né difesa. Il messaggio è chiaro, immerso al punto giusto nel registro del caos e dell’approssimazione, vistosamente destrutturato e dissonante quanto basta a simulare una parvenza di autenticità. La connotazione verace è coraggiosamente affidata ad una versione opaca della comicità, a quella buffoneria stanca che non fa più ridere, perché l’asperità dell’esistenza ne ha consumato gli eccessi più gustosi. Il gioco al ribasso, tuttavia, non è sufficientemente esplicito per allontanare il dubbio che quella patina anonima e polverosa possa essere, in effetti, soltanto il risultato di un volo nell’immaginario bruscamente atterrato prima di tracciare, nel cielo, il suo disegno fantastico e burlone. Forse questa ennesima rivisitazione, in chiave polemica ma compiaciuta,  di ciò che noi italiani siamo e sempre saremo, è davvero troppo poco saporita per potersi giovare di quella ripetitività che, una volta, costituiva la forza del nostro cinema di costume: un genere un tempo nobile, al quale, con gli anni, è stata regalata tanta libertà in più, mentre, purtroppo, gli è stata sottratta quella luce - splendente anche negli ombrosi meandri della satira – che è la speranza in un domani migliore.   

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