Regia di Silvio Soldini vedi scheda film
La carriera di Silvio Soldini ha un prima e un dopo. Lo spartiacque è sicuramente rappresentato da Pane e tulipani, film d’inizio millennio bellissimo e baciato da un meritato ed inatteso successo commerciale, commedia agrodolce e buffa con personaggi bizzarri e situazioni strampalate. Prima di quel film, Soldini aveva realizzato un piccolo capolavoro immerso negli sfaccettati anni ottanta milanesi, L’aria serena dell’ovest, e una manciata di opere amare e toste.
Dopo Pane e tulipani, invece, è passato da esigenze autoriali (Brucio nel vento) a fotografie sentimentali della crisi economica (il toccante Giorni e nuvole e lo splendido Cosa voglio di più), non dimenticando mai di rincorrere quel pubblico che tanto apprezzò il suo film di più grande successo. Agata e la tempesta esplicita esattamente la vana ricerca di quei toni che modulavano con una certa abilità Pane e tulipani, e infatti non è un gran film perché appare come una specie di manierata commedia adulta e fiabesca sul caso (tema principale del cinema di Soldini).
Insomma, senza girarci attorno ancora per molto, Il comandante e la cicogna esprime perfettamente la Sindrome post-Paneetulipani: piacere al pubblico a tutti i costi anche a costo di rinunciare ad una storia. È la storia, infatti, il grosso problema dell’ultimo film di Soldini, scritto assieme a Doriana Leondeff e Marco Pettenello. Personaggi (ma sarebbe meglio chiamarli caratteri) dai nomi inconsueti e con personalità bislacche, situazioni divertenti (qualche risata è sinceramente gustosa), idee curiose e piacevoli, certo.
Ma cos’è che si dovrebbe chiedere ad una commedia se non una storia da raccontare, e non una serie di episodi inizialmente ed apparentemente indipendenti e staccati fra di loro, faticosamente amalgamati in una seconda parte a tratti artificiosa e non del tutto risolta? Il comandante e la cicogna risente dell’eccesso di eccentricità sin dai titoli di testa in stile cartoon con gli oblò aperti su Torino che si sveglia, non regge sempre alla sovrabbondanza di metafore e simbolismi, esagera andando troppo sopra le righe nonostante procuri non di rado simpatia o ilarità.
Si dirà forse che sono troppo severo con un film tutto sommato non proprio orribile. Forse è vero, ma la delusione deriva soprattutto da due consapevolezze. La prima è che Silvio Soldini è un ottimo regista che sa destreggiarsi con elegante discrezione in luoghi normali abitati da persone normali. Sa raccontare la normalità, che sia del dolore e della gioia, turbata dal trauma dell’inatteso (Licia Maglietta abbandonata all’autogrill, giusto per fare il primo esempio che mi viene in mente) e pronta alla mutazione quando necessità impone (i borghesi declassati di Giorni e nuvole).
La seconda è strutturale: che commedia è? Di costume? Fiabesca? Allegorica? Lascia più che perplesso Il comandate e la cicogna per una ragione molto semplice: sebbene sia tecnicamente diretto abbastanza bene e in modo molto classico, sebbene l’idea delle statue parlanti dei padri della patria (direttamente da Jonas che avrà 20 anni nel 2000) sia più che interessante (e l’abilità di Soldini sta proprio nel dare vita a delle figure immobili e statiche per loro stessa natura: la cosa migliore del film) e lodevole, sebbene il reparto tecnico sia in gran forma (fotografia di Ramiro Civita, scenografie di Paola Bizzarri, musiche della Banda Osiris), sebbene tutti gli attori siano generalmente bravi (Valerio Mastadrea svetta su tutti, mentre il pur eccellente Giuseppe Battiston rischia ormai il manierismo, e l’istrionico Luca Zingaretti non va oltre la macchietta dell’Italietta berlusconiana; tra le donne l’unica veramente da segnalare è Maria Paiato, tra una Claudia Gerini insolita e un’Alba Rohrwacher un po' sopra le righe), il film è troppo studiato, troppo scritto, troppo pensato, troppo piacione, troppo eccessivo e allo steso tempo superficiale e sbrigativo (specie la seconda parte, quando i nodi cominciano a venire al pettine, non funziona).
Da Soldini si deve pretendere più di una commediola all’acqua di rose sullo sfacelo della nostra identità nazionale (la testa accidentalmente mozzata del fantomatico protoleghista di fronte al monumento di Garibaldi è soltanto una tregua, perché la testa finisce sulla scrivania dell’avvocato Malaffanno, che salva i corrotti e gli evasori grazie a prestanome), sulle dinamiche di una famiglia complicata dalla scomparsa della figura materna (in un limbo che finirà soltanto a cose messe in ordine), sulle disavventure di un’artista vittima delle ingerenze della committenza, sulla doppia vita di un educatore fuori dall’ordinario e su tante altre cose. Troppa carne al fuoco: qualcosa è rimasto crudo, qualcosa viene cotto troppo. Un gran peccato, perché Soldini sa cucinare molto bene. C'è del buono, sia chiaro, ma era lecito aspettarsi di più.
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