Regia di Max Giwa, Dania Pasquini vedi scheda film
Sequel del caso cinematografico britannico del 2010, dancing movie pseudoindipendente e in 3 dimensioni, vincente ai botteghini anglofoni, Streetdance 2 3D conferma tutti i luoghi comuni del genere. Emarginati e poi vincenti, i piccoli inciampi, più che le discese ardite, e, infine, le ovvie risalite. Verso il successo, naturalmente, in un climax che raggiunge l’apice nell’immancabile sfida finale, momento che sancisce il tripudio di integrazione e accettazione: il balletto conclusivo è una miscela ardita di culture (nel primo hip hop + musica classica, qui hip hop + salsa e tango) che si confronta con le convinzioni fossilizzate della subcultura street per innovarle in nome della contaminazione, così come (facile facile) il trionfo della crew altro non è che quello del melting pot etnico. Lo schema è comodo, la storia ci si adagia sopra priva di fantasia, perché sono i momenti di danza a importare, perché gli snodi narrativi sono solo orpelli. Fastidiosi: l’automatismo della trama è di un’evidenza che non si cerca nemmeno di dissimulare, la psicologia è industriale e seriale, residuo idiota di una verosimiglianza nemmeno richiesta. La regia sa essere sia sciattamente frontale che deteriormente videoclippara. Il 3D è ottimo e inutile. Due le dovute postille di compassione: 1) povera streetdance, arte ribelle che detona in una stucchevole confezione patinata; 2) povero Tom Conti: la gara di virilità gastronomica a colpi di peperoncino è l’ovvio nadir scult di una carriera.
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