Regia di Leos Carax vedi scheda film
Cinema e vita, eterno connubio, binomio indissolubile.
Se non ci fosse più la vita, intesa come determinismo meccanicistico, eterno divenire, perenne coazione a ripetere se stessa,
non ci sarebbero più storie da raccontare, non ci sarebbe più un immaginario in cui identificarsi/riconoscersi,
non ci sarebbero più coloro chiamati ad impersonarlo.
Non ci sarebbe più il cinema, la rappresentazione in movimento della vita.
Non ci sarebbe più il cinema, se non ci fosse più nessuno ad interpretare,
se non ci fosse più nessuno a guardare.
Il cinema come arte della riflessione esistenziale perderebbe di senso se il futuro prossimo venturo fosse fatto esclusivamente da una platea di spettatori dormienti.
Il cinema prende ispirazione dalla vita, e non di rado la sublima e la trasfigura, ma senza la vita, il cinema può dichiararsi morto. Come morta o moribonda è la pellicola, e le sue chilometriche istantanee sovraimpresse, emblema di un’arte che fa del movimento la sua ragion d’essere.
Come morti del tutto sono quelli che l'autore-regista chiama i motori sacri, le grandi obsolete macchine che rendono percettibile a livello sensibile il movimento.
Come morti o quasi sono i luoghi in cui una volta si faceva cinema.
Gli studios, i teatri di posa, i set ricostruiti con perizia a dir poco chirurgica, quelle enormi e pesanti telecamere che attestavano il fare, il mettersi all’opera, l’allestire un nuovo grandioso spettacolo.
Oggi il cinema è un lussuoso grande magazzino dismesso.
Si ridimensiona, si fa a misura d’uomo, la tecnica digitale lo alleggerisce e lo trasporta in ogni dove per irrompere fino ad immergersi del tutto nella vita reale, tra la gente, per strada, ovunque possa arrivare.
Ha assunto le fattezze di una mega limousine che si lancia in lunghi percorsi, districandosi tra strade principali, viuzze, quartieri residenziali, mercati rionali, cimiteri, dal giorno alla notte, in un flusso continuo e costante.
Importante quanto il rappresentare, è chi rappresenta ‘il chi e il cosa’ e, quindi, l’attore.
A bordo della limousine, un attore-impiegato modello e il suo camerino ambulante, nell’arco di una intensa giornata di lavoro, interpreta ruoli diversi, incarna tipologie umane variegatissime.
“Si traveste a genere e soggetto” e il suo esistere diventa tutt’uno con il film che di volta in volta viene messo in scena.
Così lo spettatore inizia con lui un viaggio di ricognizione (ai limiti dell’assurdo) nei vari generi a cui la settima arte (guardando alla vita) di volta in volta ha dato vita: dal dramma neorealistico al grottesco, allo sci-fi più o meno sperimentale, al melò da camera a quello generazionale, al musical d’altri tempi e luoghi, all’action americano, in un alternarsi senza sosta di identità interscambiabili e situazioni in cui finzione e realtà si fondono e confondono con un certo gusto accattivante, in perfetto equilibrio tra ironia e amarezza, divertissement e riflessione profonda.
Arrivando a non sapere mai chi si cela sotto la pelle di questo radicale trasformista, dietro il suo necessario, immancabile trucco e parrucco del momento.
Che si suppone esista.
Ma quale importanza può avere per il cinema conoscere la reale identità di chi veste, infaticabile(?), infinite identità altrui?
L’arte del cinema si concentra soltanto su quello che sta davanti all’obiettivo (sempre meno codificabile), lasciando fuori tutto ciò che non rientra nell’inquadratura (dai bordi sempre più sfumati).
E così allora, finita la performance, spenti i riflettori, messi a riposo i sacri motori, si ritorna ad indossare il proprio volto, quel viso che forse nessuno mai conoscerà per davvero, una maschera anonima e, per il cinema, inesistente.
In un mondo dove la vista e il tatto stanno vivendo una crisi profonda, trasformandosi in un differente forse più articolato, sicuramente più complesso modo di essere percepiti, il cinema con con Holy Motors si erige a testimone, manifesto, di questa lenta ma inesorabile mutazione ‘dei costumi’, delle relazioni, del rapporto tra (nuovo) spettatore e (nuovo) cinema.
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