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Hazard

Regia di Shion Sono vedi scheda film

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La recensione su Hazard

di Stefano L
6 stelle

kovový u p?ístup hazard sion sono Bez práce p?ízemní Absay

 

Shin (Joe Odagiri) è uno studente giapponese annoiato dall’università. Un giorno, nella biblioteca accademica, dà una scorsa a un libro che descrive una rappresentazione romanzata degli Stati Uniti; compra così un biglietto per la Grande Mela, epicentro delle sue non precise aspirazioni. Ritrovandosi in quel luogo distantissimo dalla sua cultura si sente però sempre più alienato. Ostracizzato da un contesto refrattario ed astioso va in contro a una crisi d’identità che lo porta alla tragica discesa nella perdizione: fa amicizia con un malvivente locale di origini asiatiche (Jai West), conducendo una condotta del tutto anarchica tra rapine, rapporti casuali e “lezioni private” d’inglese (evidente la barriera linguistica manifestata). Un percorso distruttivo da cui non potrà tornare indietro. Un'occasione irripetibile di stendere le ali e abbandonarsi in un sogno scatenato, travolgente. “Hazard” si allontana dai cliché cinematografici convenzionali orientandosi verso una messa in scena caratterizzata da lunghe riprese a mano che risaltano il crudo realismo dell’arco narrativo. Una tecnica ruspante tendente ad ordire pervasivamente lo stato di disorientamento di un immigrato (o un turista?) in una città occidentale frenetica e in preda alla globalizzazione crescente. Le lunghe carrellate illustrano una New York in cui nessun posto mantiene una “coerenza” stabile dell'habitat, ovunque c’è una nuova disagevole realtà da affrontare. Di conseguenza il protagonista non può che attagliarsi ad un cameratismo apparentemente vantaggioso la cui sinergia polarizzante affianca gruppi etnici affini in questo continuo spingersi all'eccesso; il perenne inappagamento causato da una quotidianità monotona alimenta un pernicioso desiderio di ribellione, il quale scade puntualmente nella squallida disillusione, generata da errori stridenti e decisioni sbagliate. Sion Sono quindi interpone l’iperviolenza a momenti di euforia urbana, usufruendo delle sole fonti luminose prodotte da lampioni stradali e insegne al neon. Tuttavia, i personaggi troppo sopra le righe, la direzione a tratti confusa e le idiosincrasie dominanti dei dialoghi si combinano in un pantano controbilanciante che smorza sostanzialmente ciò che il lungometraggio sarebbe potuto essere: una storia caustica sulla diaspora del nuovo millennio, dannatamente attuale, imbevuta di chimere, inganni, isteria e poesia. Ma alla fine ne rimane solo un apprezzabile surrogato.

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