Regia di Marian Crisan vedi scheda film
Palma d’Oro nel 2008 come miglior cortometraggio. Una splendida storia così così, strappata a casaccio dalla realtà, e messa in scena con la passione che, usualmente, si riserva alle grandi opere d’arte. Questo filmato, della durata di quindici minuti, è davvero un brandello di vita quotidiana, che si interrompe bruscamente, prima di aver maturato un significato, anzi, prima ancora di aver raggiunto un momento finale. Lo stesso soggetto è incentrato su una lacerazione rimasta in sospeso: la ferita di un divorzio che duole ancora, e che risulta insopportabile per il piccolo Maxim, che oggi compie otto anni e non capisce perché il suo papà non sia lì con lui a festeggiare. Al posto del melodramma, vediamo però spuntare, all’orizzonte, la banalità del mondo moderno, in mezzo a cui campeggia un Megatron, il robot giocattolo che i commessi del fast food regalano ai bambini insieme ad un palloncino colorato. Un mito di plastica che àncora il racconto ad una particolare epoca, negandogli ogni valenza universale: il logo di un’istantanea che si consuma subito dopo averla vista, perché il suo discorso si esaurisce nel frammento d’azione inconclusa che ha catturato. Si può fare cinema anche così, proiettando sullo schermo sprazzi di vita: prendere la tela a secchiate di vernice è un modo per esprimere una verità in maniera pura e diretta, senza l’intermediazione di un codice linguistico. Allo stesso modo, raffigurare gli avvenimenti senza dar loro una forma è la via che porta alla libertà di sguardo, che ci rende davvero soltanto spettatori di un fatto, anziché costringerci a divenire interpreti di un’idea. La disgregazione di una famiglia, con tutti i disagi materiali e psicologici che ne derivano, è il terreno perfetto per un racconto realistico ma destrutturato, che riproduce gli eventi senza dare al pensiero la possibilità di organizzarsi. La finestra si apre e si chiude su un paesaggio che scorre, che dà in qualche modo luogo a uno show, ma è solo un intervallo qualsiasi, estrapolato dal fluire del tempo. Il sipario non si alza e si abbassa secondo il programma, ma quando il destino vuole che per noi lo spettacolo inizi o finisca, delimitando ciò che ci è consentito cogliere, al volo, dall’ambiente circostante. Marian Crisan opera con la macchina da presa come chi usa la penna per scrivere di getto: le sequenze non si interrompono finché c’è qualcosa da vedere, benché il periodo non necessariamente rispetti la sintassi, e non sempre si chiuda su un senso compiuto. Questo film esprime, nei confronti della visione, un amore fresco e incondizionato, che si nutre della genuina sostanza dell’essere, senza sovrastrutture estetiche o interpretative. Ed è un invito ad avere il coraggio di parlare, con semplicità, di ciò di cui si è testimoni, con gli occhi o con la fantasia, senza cadere nella tentazione, un po’ vanesia, di dare al discorso l’inconfondibile impronta di sé.
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