Regia di John Luessenhop vedi scheda film
La potenza del Mito è la sua ripetizione. Prendendo un mitologema e riproponendolo con le naturali variazioni sul tema in modo continuo e ciclico, l’umanità preserva e perpetua il rituale della propria rappresentazione. Così anche con Faccia di Cuoio la riproposta della stessa identica storia, degli stessi identici topoi, degli stessi identici passi narrativi il mito si ripete senza soluzioni di continuità perpetuando nello specifico uno spettacolo orrorifico in cui le originarie tematiche di disfunzionalità famigliare, guerra e violenze gratuite negli USA rurali con tutte le implicazioni politiche del caso tornano a tormentare la american quietness del mito agreste.
Peccato che non tutte le riproposte del mito di Leatherface siano all’altezza del gioco riproduttivo. Prima nel 2003, poi nel 2006 e quindi nel 2013, i tre reboot degli anni zero hanno preso la celebre ossatura narrativa dell’originale hooperiano e l’hanno riproposta senza troppi cambiamenti, adeguandola soprattutto alle ultime esigenze estetiche. Patinatura, corpi perfetti, belli e sensuali, una certa omologazione visiva e un gusto fashionista per la set-decoration. Il risultato è che se in alcuni momenti ci si gode il puro intrattenimento giocando a rimpiattino con il mito della saga della sega elettrica, in altri si rasenta la semplicità e la banalità di un plot senza idee e senza più nulla da dire, senza più attacchi, simboli e perturbazioni che avevano fatto grande e immortale il primo capitolo del 1974.
Nel film di Luessenhop sono pochissimi i momenti di giubilo. Le idee latitano e la storia di una Sawyer rediviva che eredita la mostruosità di Newt per dare inizio a una nuova mattanza è un po’ ridicola. Si sta spremendo la spugna fino all’ultima goccia e si prende quel che passa il convento. Belli i titoli di testa che omaggiano il film di Tobe Hooper. Bella l’idea di richiamare sul set tre volti della pellicola originale come Gunnar Hansen, il primo Leatherface, il vecchio grandpa’ John Dugan nello stesso incartapecorito personaggio e la matriarca Marylin Burns che nel ’74 era Sally, la ragazza che scampa al massacro. E bella l’idea di mettere un po’ di pepe erotico nel film con due ragazze dalle forme pericolose come la protagonista Alexandra Daddario con due tette esplosive e Tania Raymonde con il suo corpo da reato. Forse l’unico capitolo in cui la bellezza femminile supera ampiamente quella maschile nonostante la perfezione del corpo di Trey Songz. La deriva omoerotica è infatti assente in questo capitolo, o per lo meno riguarda soltanto Leatherface che nel suo delirio infantile continua a truccarsi da donna come Ed Gein dopotutto, e come tutti i mostri epigoni del Norman Bates hitchcockiano.
Per il resto questa versione 3D della mattanza texana non apporta nulla di nuovo all’interno della discussione sul genere e sul mito in questione. Si può registrare il tentativo di provocare lo spettatore e le assi dell’equilibrio etico postulando la natura malvagia della popolazione di Newt contro la natura ferale e anche crudele, ma primitiva e innata, di Leatherface. Come a dire che Faccia di Cuoio è solo malato e andrebbe curato, mentre sindaco, sceriffi e popolazione texana tutta sono malvagi e crudeli per scelta. Il che sarebbe peggio. Purtroppo questo tentativo di differenziarsi dai capitoli precedenti per originalità non porta nulla di buono in una mitologia dove le immagini della morte e della putrefazione, della crudeltà e della paura, della sensualità e della repressione, sono fortemente ancorate a schemi narrativi e a iconografie precise che non danno tempo a rivisitazioni di senso, ma solo alla perpetuazione del mito originale da vedere e rivedere come un rituale esorcista.
Una nota positiva del film è Scott Eastwood. Sembra di vedere il padre da giovane. Peccato no superi ancora le quattro scene…
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