Regia di Dino Risi vedi scheda film
Il boom è finito e siamo solo al millenovecentosessantacinque. Un altro paio d’anni e vai con la contestazione giovanile. La comunità posta sotto la lente di De Concini e Risi è un gruppo di persone annoiate che ammazza il tempo con gli ultimi svaghi di una stagione morente. Il valore principale de L’ombrellone sta proprio in questa consapevolezza della decadenza di un mito borghese (la villeggiatura). L’ingegnere Enrico (ammogliato ad una malinconica Sandra Milo) è l’anticamera laica del Vittorio Borghi che dominerà decadente ne Le stagioni del nostro amore dell’anno successivo. È l’individuo che più di tutti avverte il disagio di quella brigata di goliardici quarantenni senza riferimento alcuno: priva di colore politico ben definito (diciamo la maggioranza silenziosa), sprovvista di senso civico e di una qualche idea sociale, interessata alla frivolezza. Coscienza critica della comunità, Enrico dalla pipa in bocca vorrebbe evadervi, ma non ci riesce perché non ne è capace: è troppo borghese per scappare dal conformismo del ceto al quale appartiene.
L’ombrellone è lo status estivo, l’indispensabile appiglio della stagione baciata dal sole: se ti accaparri quel posto all’ombra sulla riva, sei qualcuno, conti. Almeno in quei due o tre mesi di mare. L’occhio di Dino Risi (che di film balneari e crudeli ne sa qualcosa) è attento, arguto, ma anche disorientato, distaccato, a tratti caratterizzato da quel cinismo che contraddistingueva la sua simpatica personalità. L’ombrellone non è un film riuscitissimo, ma la ragione è chiara: ingolfandosi in se stesso alla ricerca di un qualche motore che implichi l’esistenza stessa della storia, non trova lo sbocco giusto, si perde qua e là in macchiette e in situazioni da aneddoto. Si regge sul personaggio contraddittorio di Enrico, ma è una base esile: il buon Salerno, pur bravissimo, è un po’ smarrito tra i troppi ombrelloni spuntanti nella torrida spiaggia di Riccione e l’overdose di canzonette da juke box (regna Il mondo di Jimmy Fontana). E proprio per sottolineare l’estremo e latente disagio esistenziale e forse generazionale, il finale lascia aperta la circostanza della continuazione della stessa vita.
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