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L'ombrellone

Regia di Dino Risi vedi scheda film

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H Bakshi

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La recensione su L'ombrellone

di H Bakshi
9 stelle

Un capolavoro. Nel descrivere una serie di banalità, non è affatto banale. Nel rappresentare lo squallore, mantiene una propria eleganza. Più che “cattivo” come “I mostri”, pare un film “distaccato”. L’Italia del boom non è stata proprio quella che immaginiamo e Dino Risi, in questo film sui riti di Ferragosto, non lascia passare nulla.

La mia adorazione per Dino Risi mi ha fin qui inibito di recensire i suoi film. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che il regista sia stato il nostro “Billy Wilder”, come poi ho letto da qualche parte. “Dinorisien” è l’aggettivo che tra i francesi contraddistingue il suo modo di fare i film e un altro grande, Federico Fellini, ci ha spiegato quanta soddisfazione possa dare la trasformazione del proprio nome in aggettivo. Ciononostante, se alcuni film del regista sono unanimemente considerati capolavori, altri lo sono di meno. Tra questi c’è “L’ombrellone”, che ho rivisto in questi giorni in omaggio alla grandissima Sandra Milo, appena scomparsa e anche lei vittima di sottovalutazione.

Diciamocelo: “L’ombrellone” è un capolavoro. Nel descrivere una serie di banalità, non è affatto banale. Nel rappresentare lo squallore, mantiene una propria eleganza. Più che “cattivo” come “I mostri”, pare un film “distaccato”. Distaccato come lo sguardo riprodotto dallo zoom per farci percepire l’affollamento della spiaggia di Riccione nel 1965, distaccato come il protagonista che, alla fine del film, nel suo silenzioso appartamento all’EUR ascolta, nel dormiveglia, le notizie alla radio sul numero di morti sulle strade italiane nei giorni di ferragosto. Ferragosto non è un periodo qualsiasi per Dino Risi, che nel ’62 vi ambienta la prima parte de “il sorpasso” e che su questa ricorrenza scrive addirittura alcuni versi in cui distilla tutta la sua amara misantropia: “Ferragosto, la città deserta, io sulla tazza del cesso, con la porta aperta”.  Nel film il protagonista, interpretato da Enrico Maria Salerno, lascia una Roma deserta per recarsi nell’affollatissima Riccione, dove la moglie (interpretata, appunto, da Sandra Milo) sta trascorrendo le vacanze, attorniata da una serie di personaggi ed immersa nel caos della città balneare. Siamo quindi nel pieno di un microcosmo particolarmente indigesto per il regista, e da qui si dipanano due tracce narrative parallele: quella del rapporto di coppia privato, evidentemente in crisi, e quella dell’interazione della coppia nel pubblico, che permette a Risi di fare un affresco della società del boom (nei confronti della quale è, come si può immaginare, spietato nel rappresentarne i tic e le abitudini alienanti). Ora che, dopo quasi sessant’anni, tanto di quel mondo è cambiato, cosa resta del film? Si tratta della foto di un cambiamento epocale, quello degli anni ’60, in cui (perlomeno in occidente) il trauma della seconda guerra mondiale pareva elaborato (in realtà cominciava più che altro ad essere rimosso) e di cui si ricordano soprattutto una certa eleganza e l’ottimismo, ma del quale si scotomizzano l’egoismo e la disgregazione di una serie di valori a favore della ricerca e dell’ostentazione del successo, in primis economico. E’ l’immagine di un punto di svolta, verso una direzione in cui, bene o male, stiamo ancora procedendo, nonostante l’ottimismo si sia perso per strada. E' questa perdita dell’ottimismo che può indurci a provare un’acuta nostalgia di quegli anni. Nostalgia che magari curiamo con qualche rassicurante film hollywoodiano dell’epoca. Ma “L’ombrellone” resta lì a dirci che non è stato tutto oro ciò che a noi sembra luccicare. In questo senso mi ha ispirato la stessa tensione di un film diversissimo sullo stesso periodo: “Così ridevano” di Gianni Amelio. Ma “l’ombrellone” mi evoca, forse a torto, anche altre suggestioni. E’ un “istant movie” non meno riuscito del primo “Vacanze di Natale” dei Vanzina. Il caos corale, le voci intorno a quelle dei protagonisti, le musiche (25 brani diversi di quegli anni) sempre in sottofondo, sembrano anticipare lo stile “altmaniano”. Il film è decisamente meno profondo, meno ambizioso e certamente meno raffinato de “La dolce vita” di Fellini (ad esempio: anche qui vediamo sorgere l’alba sulla spiaggia, ma in maniera più sommaria e con il contorno di vistosi mastelli di plastica) anche se un tocco di eleganza ce lo regala l’indimenticabile Lelio Luttazzi (che Ennio Flaiano aveva definito “portatore sano di smoking”).  Il ménage della coppia, che si risolve con un atto sessuale (il quale, con il tipico approccio da anni ’60, ci viene rappresentato attraverso il prima e il dopo) non è in fondo dissimile da quello ripreso da Kubrick in “Eyes Wide Shut”. Ho esagerato con l’entusiasmo? Forse sì, ma vale proprio la pena di vedere questo film.

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