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Giorni

Regia di Laura Muscardin vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Giorni

di (spopola) 1726792
6 stelle

… E’ passato un anno e ho ripreso la mia vita.

Ho cambiato città e ho cambiato anche il lavoro.

Ora vivo da solo.

Andrea ero riuscito ad escluderlo talmente bene dai miei pensieri che mi sembrava di averlo dimenticato.

A volte avrei voluto chiamarlo, ma trovavo sempre una buona scusa per non farlo.

Avevo paura…

E’ solamente per un caso che qualche giorno fa ho saputo della sua morte. So che non ha voluto curarsi, e questa forse è l’unica certezza che ho. Tutto il resto rimane come sospeso, anche il ricordo di quei giorni passati insieme, quello che è rimasto nascosto e che io non sono riuscito a capire, i dubbi e le domande che improvvisamente tornano e che non avranno mai risposta.

Vorrei credere che dal momento che la morte arriva per tutti, lui abbia scelto di prenderla da me perché mi amava… Certamente mi convincerò… Finirò per credere a quello che mi fa meno male, come sempre del resto.

Il tempo aiuta… il tempo…

 

Giorni, liberamente tratto da una preesistente  opera teatrale di David Osorio Lovera (Il volto dell’assassino) è stata la prima regia nel lungometraggio di Laura Muscardin, all’epoca appena trentacinquenne, e poggia su una solida (ma un po’ datata) sceneggiatura (già vincitrice del premio Solinas nel 1997) - scritta dallo stesso Osorio Lovera con la collaborazione di Monica  Rametta e della Muscardin - che tratta temi abbastanza scomodi e scottanti (tutt’ora  attualissimi comunque, nonostante che siano passati ben 10 anni dal momento della sua realizzazione – e ancor di più dalla    scrittura scenica - e che nel frattempo la situazione si sia notevolmente modificata, non tanto nella sostanza quanto nella percezione).

Pur trattandosi di un’opera che ha transitato da moltissimi festival cinematografici italiani e internazionali, il film però non ha purtroppo mai trovato una effettiva distribuzione in sala, ed al momento, almeno per quel che mi risulta, è reperibile (con qualche difficoltà) soltanto sul web. Un altro titolo insomma ascrivibile a  tutti gli effetti nella categoria degli “inediti invisibili”, un bacino sterminato zeppo di sorprese, che ogni anno  cresce a dismisura nell’indifferenza generale, a conferma della comatosa condizione in cui versa il nostro “sistema cinema”,  interessato a coccolare, promuovere e programmare a tappeto  come “materiale pregiato” meritevole di  essere visionato, solo   le insulse e sboccate pseudo commedie di costume(?) di derivazione paratelevisiva e i cinepanettoni natalizi (le classiche “galline dalle uova d’oro” insomma, volgari e prive di sostanza e di costrutto, ma fortemente allettanti per gli incassi che producono).

Quello della Muscardin può essere considerato ovviamente solo un debutto interessante (magari anche promettente), non certo “memorabile”, ma l’approccio è serio, seppure discontinuo nei risultati. Nonostante  certe spigolosità di regia (e molte inadeguatezze recitative) spesso inevitabili soprattutto nelle opere prime realizzate a bassissimo costo,  avrebbe comunque meritato una maggiore attenzione (e circolazione), se non altro per l’inedita qualità di uno sguardo indubbiamente ancora acerbo, ma  insolito e coraggioso, nel suo cercare di rifuggire ad ogni costo dalle troppe trappole dello stereotipo legato e quello che in quegli anni poteva essere considerato un vero e proprio “sottogenere” di nicchia (trasgressione/sesso/malattia) quando si decideva di affrontare, cinematograficamente parlando, il problema dell’omosessualità quasi sempre indissolubilmente legato a quello del contagio, con tutte le drammatizzazioni di prammatica.  In totale controtendenza infatti, La Muscardin ha optato invece  per un linguaggio scabro, quasi prosciugato, essenziale, sgradevole e legnoso come  il  suo protagonista, figura centrale della storia, compatto come un giubbotto di pelle (la definizione è di Mario Sesti), un personaggio che non suscita molta empatia e può risultare persino un po’ antipatico, chiuso com’è nel guscio protettivo e in apparenza inamovibile delle sue certezze e convinzioni che gli impedisce di lasciarsi andare all’intensità e alle pulsioni  di un’esistenza che non riesce più a far palpitare, “fotografata” nello svolgersi anche ripetitivo della vita di ogni giorno, una premessa e un punto di partenza molto importante (e soprattutto necessaria) per aiutare poi lo spettatore a entrare in sintonia con il suo dramma quando dissolve se stesso e butta alle ortiche anche la corazza, travolto all’improvviso da una passione irrefrenabile di fronte alla quale nessuno, indipendentemente dalle proprie tendenze sessuali, può ritenersi “immune” e resistente: si tratta in sostanza di una storia d’amore, e di questo ho inteso parlare. – dichiarò a suo tempo la regista nel corso di un’intervista - Partendo proprio da qui ho cercato soprattutto di capire e di rappresentare senza falsi e inutili moralismi quanto forte possa essere l'impatto dell'amore e della passione su qualcuno che deve affrontare giorno dopo giorno l'idea della morte e quante barriere anche etiche riesca ad infrangere non sempre positivamente. Dato che la maggior parte dei personaggi del film è gay, è ovvio che questo definisca un certo ambiente, ma io continuo a pensare alle figure centrali della storia - soprattutto Claudio e Andrea -  come a delle persone innamorate, niente di più, e mi piacerebbe molto che anche questo fosse l’atteggiamento del pubblico fruitore, non tanto per assolverle, quanto per comprenderle. L’Aids non è la “peste gay” di cui molti, in preda al panico morale, vaneggiavano all’inizio degli anni '80 infatti. Soprattutto non è affare di poche categorie a rischio, e può colpire, come sta facendo, anche persone eterosessuali, il che universalizza, o almeno rende trasversale il mio discorso.
 


Nel film infatti, gli omosessuali non sono rappresentati con il solito cliché della “checca isterica” – il che non è davvero merito da poco - e non ci sono neppure accenti morbosi su scelte sessuali che ancora in troppi si ostinano a giudicare “anormali”: si parla di una coppia, del suo entroterra anche culturale e della nascita di un nuovo amore che annulla ogni certezza, fa perdere il controllo delle cose e rende anche incoscienti (e in questo, la “diversità” sessuale è soprattutto una annotazione marginale, una   “complicazione” sociale e una maniera molto più radicale ed estrema di intendere la passione).

Come già detto, l’esplorazione è dunque meticolosa e inusuale, i caratteri anche di contorno (molto importanti  per definire il quadro complessivo),  ben articolati e di spessore (la sorella fragile, ma al tempo stesso anche protettiva; l’insensibile madre;  la premurosa infermiera, benevola e disincantata  testimone), e soprattutto delineati con una  particolare cura che difficilmente si riscontra in molto  cinema italiano di oggi,  spesso pressappochista proprio nella definizione delle psicologie. Ed è principalmente nell’insieme dei rapporti, in quella descrizione minuziosa delle azioni che il film convince e commuove, diventa lo spunto per interrogarsi su molte cose, e farci diventare di conseguenza meno categorici e  giudicanti per arrivare a conclusioni più  serene e meditate ben oltre la consuetudine e la morale corrente  (il ragionare sull’instabilità delle certezze e degli equilibri,  per esempio, ma anche sulla scelta non sempre consapevole di lasciarsi scivolare la vita addosso per difendersi e preservarsi da improvvise sorprese, che può svanire all’improvviso facendoci tornare vulnerabili, ma soprattutto su come sia possibile – e pericoloso - fregarsene della  paura e liberarsene pensando di poterla scongiurare “dimenticandola”, l’unica possibilità che forse rimane a chi si trova in certe condizioni estreme prive di speranza, per tentare di tornare a vivere e ad amare, pur con tutte le complicazioni e  le conseguenze anche discutibili che si  porta dietro).

 

E’ la storia di Claudio quella che ci viene raccontata nella pellicola,  che  di professione fa il bancario e che  convive ormai da 10 anni con il virus dell’HIV. Un uomo serio, posato e riflessivo, soprattutto molto sicuro di sé nella vita e nel lavoro nonostante quella spada di Damocle che sovrasta  la sua testa ma che affronta con consapevole dignità e coraggio e che tiene a   bada con i farmaci che assume con meticolosa precisione. Crede di aver definitivamente chiuso i conti con la propria famiglia di origine, e dall’alto delle sue certezze, disprezza senza nasconderlo nemmeno troppo,  la scarsa solidità della sorella Laura con cui mantiene comunque un rapporto stretto anche se non privo di conflitti: sa di essere il suo punto principale di riferimento (come lo è anche per la madre e per il suo compagno Dario, con il quale ha da molti anni un legame importante e duraturo, ma ormai un po’ consunto nell’abitudine), cosa questa che lo rende ancor  più monolitico. Nonostante  l’usura  del tempo e della consuetudine, il rapporto che ha con Dario con cui convive,  è comunque di quelli che danno equilibrio e sicurezza, sempre molto importanti in una situazione di salute “precaria” e irreversibilmente compromessa, ed è forse anche per questo che si è fatto convincere a farsi trasferire per seguire il compagno che deve spostarsi a Milano per ragioni di lavoro. Claudio però non è intimamente soddisfatto da questa relazione (o forse non gli basta più): non stima molto chi come Dario non fa progetti sicuri e soprattutto non ha la  costanza e l’equilibrio dell’autosufficienza per portarli da solo a  buon  fine, ed è in qualche modo inconsciamente alla ricerca di qualcosa che lo risvegli dal torpore. L'apparente tranquillità un po’ monotona, si tramuta infatti in evidente crisi dopo l'incontro con Andrea, un giovane cameriere dallo sguardo profondo e il sorriso ammaliante, e l’alchimia che si concretizza immediatamente fra i due, è di quelle che si potrebbero definire “pericolosamente fatali”. L'amore incondizionato di Andrea travolge infatti Claudio e la sua ordinata esistenza  e lo costringe, all’improvviso e  senza quasi accorgersene o farsene una ragione, a confrontarsi con preoccupato stupore con un imprevisto non più messo in conto, quello dell’insorgere di un prepotente richiamo dei sensi totalizzante e assoluto. Attrazione e repulsione si alternano così nell'animo del giovane, finché la passione prevale su ogni altra considerazione, anche sulla razionalità, fino a mandare in frantumi tutti i  progetti di vita e di futuro fatti in precedenza: dimentica in  un attimo non solo Dario e il suo trasferimento a  Milano, ma  persino la  sua malattia. Chiude la relazione con il compagno, manda all’aria la  consolidata posizione professionale che aveva, e mette in discussione anche la sua salute iniziando a saltare i controlli periodici e  gli appuntamenti giornalieri con le pillole “salvavita” che rappresentano la condizione e il mezzo per garantire stabilità al suo benessere fisico. Andrea non teme la malattia (o forse “preferisce” ignorarla), e non vuole usare il preservativo (sembra quasi anelare il contagio come se  lo  considerasse un atto perverso e toccante di completa comunione sentimentale) e i frequenti rapporti sessuali fra i due   per convinzione e incoscienza saranno così tutti  compiuti senza protezione, di quelli cioè da considerarsi a rischio (quasi certo) di contaminazione virale. Come ben sappiamo anche per esperienza diretta, le pulsioni dell’animo quando si scatenano sono impetuose come un uragano ma le maree che  si producono una volta  assestate le emozioni, sono poi discontinue: fluiscono e defluiscono  con ritmo altalenante fra euforia e incertezza, fino a quando alla appassionata, rassicurante leggerezza di un sentimento puro e  assoluto, finisce per subentrare di nuovo, all’improvviso e repentinamente, la paura che il  ritorno alla coscienza consapevole delle cose amplifica con tutti i sensi di colpa che insorgono e prendono il sopravvento. Claudio abbandona  così anche  Andrea, spaventato e di nuovo alla ricerca di se stesso, ma soprattutto alle  prese, oltre che col turbamento psichico che lo pervade per ciò che può aver provocato al compagno, anche con l’inevitabile peggioramento della sua condizione fisica per la trascurata assunzione della terapia  (i CD4 che calano vertiginosamente e  la  viremia che si impenna)  che gli fa temere il peggio. Di nuovo “responsabile” , ricomincia a  curarsi altrove (ormai non gli rimane che la fuga da se  stesso  e dai suoi atti  per non dover  guardare in faccia una realtà che gli farebbe troppo male). Dopo un anno, quando sarà riuscito a  rappezzare la  sua vita ritrovando anche un più accettabile equilibrio fisico, gli arriva però improvvisa e casuale, la notizia della morte di Andrea, e a questo punto, dubbi e  rimpianti lasceranno il campo alla certezza di un passato che ritorna inesorabilmente e che  non potrà mai essere obliato: So che non ha voluto curarsi, e questa forse è l’unica certezza che ho. Tutto il resto rimane come sospeso, anche il ricordo di quei giorni passati insieme, quello che è rimasto nascosto e che io non sono riuscito a capire, i dubbi e le domande che improvvisamente tornano e che non avranno mai risposta. Vorrei credere che dal momento che la morte arriva per tutti, lui abbia scelto di prenderla da me perché mi amava… Certamente mi convincerò… Finirò per credere a quello che mi fa meno male, come sempre del resto.

Il tempo aiuta… il tempo…

 

Come si può ben comprendere da tutto quanto ho esposto sopra,  la rappresentazione di questa passione per molti versi malata, intende essere una specie di resoconto della quotidianità di un’esistenza passata all’ombra della morte (o meglio sotto la sua incombente minaccia),  tema arduo e molto rischioso, perché è molto facile lasciarsi prendere la mano e scivolare nel sentimentalismo. La Muscardin fa tutto quello che può (ed è moltissimo) per tenere a freno il melò (dobbiamo renderle atto di questo)  ma ci riesce solo in parte e purtroppo nemmeno fino in fondo, perché a un certo punto è proprio il consueto schema dell’autodistruzione sentimentale ovvio, programmatico e un tantino letterario, che prende il sopravvento (si potrebbe dire  che, cacciato dalla porta, alla fine - pur indesiderato - riesce ad insinuarsi subdolamente nella storia rientrando  dalla finestra)  fino ad annacquare un poco le buone intenzioni di partenza che solo un mestiere più saldo e navigato avrebbe forse potuto pienamente onorare con efficacia. Inoltre per seguire i tempi lenti della malattia senza rinunciare alla sinteticità didascalica dei referti, di tanto in tanto anche il racconto perde sorprendentemente di incisività diventando  quasi prolisso, in questo devo dire anche mal supportato da qualche ingenuità di montaggio  e da un ricorso troppo insistito ai primi piani. Per far funzionare meglio le cose la regista avrebbe dovuto avere la forza di mantenere una linea più uniforme, e soprattutto di poter contare su una recitazione maggiormente consapevole e  matura. Il film patisce infatti proprio la debolezza espressiva di alcuni interpreti (e non parlo ovviamente di quelli di secondo piano), il che contribuisce a mettere ancor più in evidenza quei pericolosi  slittamenti verso il melodramma con finale tragico che sono disseminati nel percorso come piccole trappole nascoste e non sempre dribblate. Se Monica Rametta (la sorella) e Paola Gassman (la madre) sono abbastanza in palla, è soprattutto il protagonista,Thomas Trabacchi a cui spetta il peso maggiore della storia, ad essere deficitario perché pur avendo la faccia giusta e adeguatamente respingente nella sua raziocinante fisicità un po’ consunta, non possiede oggettivamente la necessaria esperienza e  preparazione per sostenere sulle sue esili spalle il peso di un ruolo tanto impegnativo (e questo evidentemente nuoce notevolmente al risultato complessivo).Restano così alla fine maggiormente impressi nello spettatore,  il sorriso abbagliante di Riccardo Salerno (Andrea) e  i suoi straordinari occhi azzurri  (sicuramente fra tutti, il migliore in campo).

Apprezzabile è invece la ricerca sulle luci e sui colori (fortemente influenzata - ha ammesso la regista - dalle opere di Derek Jarman) e l’assenza di pericolosi compiacimenti anche formali (i classici “vezzi” d’autore) che confermano l’esistenza di  una visione neutra e personale tesa a cercare di raffreddare  una materia  (vedi il controllo assoluto che riesce ad avere sulla sequenza  finale) che un’eccessiva emotività avrebbe certamente   spinto nella direzione di una tragedia strappalacrime  troppo banale e risaputa. In ultima analisi dunque, una pellicola che conferma la promettente ma incompiuta positività di un esordio audacemente ambizioso (per tematica e definizione del linguaggio) riuscito solo in parte.

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