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Bereavement

Regia di Stevan Mena vedi scheda film

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La recensione su Bereavement

di scapigliato
8 stelle

La riflessione sulla carne, e per estensione sul corpo, il nostro corpo, quindi l’immanenza della vita, dei nostri bisogni e dei nostri istinti, in altre parole l’esorcismo della morte, innerva il genere horror fin dal suo nascere – come non vedere in questa ottica i monster-movie della Universal con Lugosi, Karloff e Chaney. Ma è con gli anni sessanta, e in particolare con La Notte dei Morti Viventi (1968) di George A. Romero – anche se non vanno dimenticati gli affondi gore di Herschell Gordon Lewis agli inizi del decennio – che la riflessione si fa più matura e più strutturata, irreversibile e seminale anche nella sua pluralità e trasversalità. Dopotutto altri generi hanno adottato il corpo come strumento assoluto per dibattiti morali, etici, esistenziali o carnasciali. A conferma basterebbe un titolo su tutti Ultimo Tango a Parigi (1972), con gli echi e gli strascichi scabrosi che ancora oggi l’accompagnano, e perché no, anche Ultimo Tango a Zagarolo (1973) con il culo di Franco Franchi.

In Bereavement il regista Stevan Mena prende uno dei pilastri maggiori dell’horror statunitense e rilegge l’insidioso mito della carne senza aggiornamenti sociologici o senza particolari novità estetiche riuscendo pienamente in un’operazione di solo e semplice gusto archetipale. Non c’è nulla di nuovo in Bereavement, ma tutto quello che c’è, seppur già visto, non solo è fatto bene, ma possiede anche una sua personalità, un’originalità non di intenti ma di risultati. Tant’è che nel panorama marcescente del torture-porn, il film di Mena sa distinguersi sia per il gioco citazionista, sia per la rielaborazione dei topoi presi a modello.

Il riferimento maggiore è evidente quanto classico. Dal Tobe Hooper di Non Aprite Quella Porta (1974) il regista e produttore e sceneggiatore prende il tema del mattatoio chiuso per la crisi, il tema della perdita del lavoro, di una vita passata a macellare bovini e quello di una famiglia disfunzionale e castratrice: il serial-killer per esempio non è mai andato a scuola, obbligato dal padre a lavorare nel mattatoio. Quindi Sutter come i Sawyer.

Ma ritroviamo pure Psycho (1960) con la presenza ambigua, spettrale, mummificata, forse anche fantastico-stregonesca di un padre sì morto, ma ancora a spasso per la casa, che rivive in inquietanti totem con la testa da longhorn. Così come ritroviamo il rapimento di un bambino a cui poi il killer insegna il mestiere durante la prigionia proprio come accade in Chained (2012) di Jennifer Lynch. Nonostante questi cliché riutilizzati, il film non ha mai il sapore della banalità tanto è ben diretto con semplicità. Inoltre, la mattanza finale, che riporta tutto alla stadio primitivo dell’origine del male, con le sue coreografie macellaie alla Dario Argento fa della pellicola un piccolo gioiello fuori dagli schemi.

Stevan Mena dirige infatti con gusto le scene più orrorifiche e disturbanti con dettagli splatter ben riusciti e mai banali. Scivola invece, sulle scene di vita domestica, quasi come se non gli interessasse quel microcosmo tanto quanto il cosmo deformato della follia assassina del maniaco omicida. Utilizza una messa in scena dettagliata e minimalista e non si lascia andare in slanci barocchi e faciloni con cui oggi si rattoppano quasi tutti i buchi degli horror di ultima generazione. Il regista è quindi calibrato e posato nella scelta degli elementi scenici – forse anche per necessità – come per gli elementi narrativi.

Il punto forte del film è l’estraneità delle vittime del serial-killer al plot generale. Qui i corpi mandati al macello non sono prelevati da un gruppo chiuso che abbiamo conosciuto a inizio film, bensì sono delle ragazze sconosciute che vengono via via rapite dal maniaco. Il film è tutto incentrato su Alexandra Daddario e la sua “perdita”, la rielaborazione del lutto attraverso la conoscenza carnale di altre corporeità – quella canonica di Nolan Funk che qui se la cava egregiamente – e sui delitti dell’assassino seriale visti dagli occhi indifesi di un bambino disautonomico. Anzi, si potrebbe dire che la maggior parte del film sia dedicato proprio al killer più che alla protagonista, la cui storia di difficile convivenza con gli zii è scialba e poco strutturata.

La Daddario – unico motivo per cui vedere per esempio Non Aprite Quella Porta 3D (2013) – qui la troviamo meno aggraziata e più fuori luogo, capace comunque di scatenare l’ormone della crescita e soprattutto di innescare un link estetico tra lei e le prime vittime del maniaco, come copione slasher vuole, ma anche come vorrebbe la rilettura di Stevan Mena per il quale il mito della carne è strettamente collegato, of course, alla fisicità degli attori del racconto. Pena la disfunzionalità e l’inefficacia dell’opera orrorifica.

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