Regia di Lawrence Silverstein vedi scheda film
Mai come in questo film si fa il tifo, spudorato, per il grigio, opprimente tessuto urbano, con le sue brutture assortite e le sue orrorifiche ramificazioni simili a metastasi. Sì, perché, a vedere questi squilibrati che zompettano, corrono, volteggiano, piroettano come forsennati, si spera vivamente, e senza rimorso alcuno, che si sfracellino al suolo, o che s’infilzino contro i cartelloni pubblicitari, o che spiaccichino le loro testoline piene di antimateria sui muri. Oppure che trovino qualcuno - che magari è intento a farsi una bella colazione al bar con una dolce fanciulla - il quale, vistosi lo spazio violentato da certi dementi in moto perpeuto, gli schiacci i testicoli(ni). Ma con simpatia, eh. La stessa che suscitano i freerunners.
Bene, evacuata la lieve ed impellente urgenza critica - come un improcrastinabile bisogno fisiologico - per una tale idiota attività (e per il quale non può non venire in mente la celebre frase di Einstein sulla stupidità umana), che dire, che raccontare, che risvoltare del film in oggetto?
Dopo lunga riflessione, ponderata, meditata (sulla tazza del cesso - c‘era sempre quel bisognino di cui poc‘anzi), il giudizio è: una vera schifezza.
Già i primissimi minuti dettano la linea, e non è un bel vedere né sentire, ma solo subire, giacché è dominante la rivoltante estetica da videoclip/videogioco unita al tanto caro effetto reality (dai quali, evidentemente, certi prodotti non riescono a prescindere): camere a mano barcollanti e frastornanti (con immancabile senso di vertigine e mal di mare), montaggio schizzato, confusione esagerata ed esasperante nelle scene d’azione (che dovrebbero invece costituire il punto di forza), ritmo a rotta di collo ma disomogeneo e caotico, fotografia sgranata, split screen, musica a palla.
Un gran casino, insomma, che provoca immediatamente disgusto e disagio psicofisico (da cui la reazione - più che giustificata - di cui sopra).
Tuttavia, l’annichilente resa visiva non è l’aspetto peggiore: il “bello” arriva con la storia, se così la si può chiamare. E pensare che si sono messe in sei - dico: sei! - grandi menti a scrivere la “sceneggiatura”, roba che finanche un infante di prima elementare - e manco troppo acuto - riuscirebbe a concepire qualcosa di “più migliore” (no, non è un errore, è solo la ricerca dell’immedesimazione psicologica del materiale analizzato). Il fatto è che trattasi di una trama ultraderivativa, stravista, e abusata, in cui è sin troppo facile riconoscere riferimenti e schemi, nei quali, come detto, si innestano i tipici meccanismi da reality. Solita caccia all’uomo, con i compagni di merenda eliminati uno ad uno, per il sollazzo dei soliti miliardari annoiati e spietati, col prode protagonista che da preda diventa predatore (un titolo su tutti: Senza tregua di John Woo). I braccati hanno i minuti contati per giungere alla meta, solo uno potrà vincere, avendo salva vita, e quindi tutto è permesso ed anzi incentivato; inoltre, per essere tenuti al guinzaglio, hanno un collare esplosivo (come in Sotto massima sorveglianza con Rutger Hauer) che si aziona in caso di uscita dalla “zona verde” o per mano di colui che lo controlla.
In tutto questo “originalissimo” sviluppo, i personaggi hanno la dimensione di figurine (senza cervello, non che vi fosse qualche dubbio) che servono unicamente al passaggio del livello successivo (come in un videogame), e per questo la totale pretestuosità della narrazione prevede mosse ridicole, dialoghi imbarazzanti, scelte assurde, passaggi incongruenti, risoluzioni puerili, colpi di scena telefonati e risibili.
Il cattivo, che è una macchietta d’infima caratura, un supertamarro, pare uscito dai peggiori film di serie Z degli anni ottanta. Che, a conti fatti, è la collocazione ideale di questo film.
Naturalmente non poteva mancare il lato sentimentale - stucchevole e sdolcinato oltremodo (stendere un velo pietoso sulle effusioni tra i due, please) -, e quindi ecco che il protagonista (interpretato dall’anonimo e dimenticabilissimo, privo di carisma, Sean Faris, anche produttore esecutivo), che prende più botte di Bruce Willis in Die Hard, lotta e ansima per la sua bella, una davvero bella (Rebecca Da Costa, giovanissima modella brasiliana). Una che è così gnocca che pensi che dovrebbe fare la modella, invece di stare con quel deficiente. Mistero.
Altro mistero è come sia potuto finire in 'sta zozzeria Seymour Cassel. Mah.
Finiti i misteri rimangono i miseri rimpianti per aver perso tempo a vedere Freerunner - Corri o muori (la seconda che hai detto. Parola di Quelo).
Che poi: ma che minchia ci fa al cinema?
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