Regia di Koen Mortier vedi scheda film
Dal regista di Ex Drummer, un terribile incubo solitario. Freddamente tragico, pacatamente introspettivo, cinicamente surreale come, da qualche anno a questa parte, solo il cinema belga sa essere. Una storia di fantasmi mentali, di irrazionali sensi di colpa, del senno di poi che prolunga il rimorso, uccidendo due volte. Un attentato suicida distrugge un centro commerciale affollato di clienti. Sam, il vigilante che era di turno quella mattina, rimane ferito e sconvolto, e prende a girovagare all’interno di una città deserta. Sembra l’inizio del racconto di uno stress post-traumatico, in cui la desolazione interiore si proietta sul mondo esterno. La realtà, tuttavia, è ben più complessa e stratificata, e il quadro completo della situazione risulterà chiaro solo alla fine di un lungo ed intricato discorso retrospettivo. Il film è volutamente oscuro, e si sviluppa lungo una matassa di avvenimenti apparentemente scollegati, concatenando le immagini in aperta violazione della continuità spazio-temporale. È come aprire e sfogliare a caso il libro del passato, giungendo a una lettura completa a suon di salti avanti e indietro. Un cammino zigzagante e difficile, per ricostruire il senso di un singolo istante di morte e distruzione; per capire il nesso tra i percorsi esistenziali che, in quell’attimo, si sono fatalmente incrociati. Esperienze sparse, messe insieme dall’azzardo del destino, che cercano, a posteriori, di giustificare quella loro unione. Dialogando, confrontandosi, cercando di collaborare. Il protagonista è il nucleo di aggregazione di quel gruppetto di anime che gli si accalcano intorno, cercandolo, depositando su di lui le loro personali ansie, senza però veramente poter scalfire la sua corazza fatta di un dolore attonito e di un senso di colpevole impotenza. Come dire che la sofferenza avvicina, ma non è in grado di unire. Nel retroterra di ogni coscienza si annida infatti un diverso tarlo, che determina, in maniera intrasferibile, la chiave di lettura degli eventi. Il decorso di ogni ossessione prende avvio da quel relitto sommerso, che è quasi sempre un tragico errore o una vergognosa debolezza: una distrazione assassina, una passione morbosa. In quella indissolubile bolla di inaccettabilità rimane incapsulata l’atmosfera irrespirabile di un eterno, inconcludente ritorno al punto di partenza: è l’aria di un ambiente chiuso rivisitato troppe volte senza mai avanzare di un passo verso la soluzione. Koen Mortier riproduce perfettamente il senso di quel circolo vizioso, in quest’opera in cui risuona, in ogni scena, l’eco torbida e ovattata della frustrazione. L’angoscia è ininterrotta, ma purtroppo, sotto il suo peso opprimente, la profondità del pensiero rimane un po’ schiacciata. 22 mei, per quanto poggi su un impianto accuratamente architettato, ricorda una pagina di diario scritta di getto, contenente più uno sfogo che una vera riflessione. E la stessa psicologia dei personaggi appare bloccata, ermetica, innaturalmente stilizzata, come in una fotografia: una serie di folgoranti ritratti individuali, impressi sulla superficie di un foglio, ai quali gioverebbe, forse, acquistare una terza dimensione che parli più diffusamente della loro umanità.
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