Regia di Daniel Espinosa vedi scheda film
Strani cortocircuiti riempiono di senso il debutto Usa dello svedese Espinosa. Si presenta come cinema sicuro - con gli ingredienti che ti aspetti dallo spy action - come sicura, letteralmente, è la safe house di Città del Capo dove la Cia interroga in segreto testimoni letali e importanti per le indagini. Ma entrambe le certezze sono presto scardinate da un commando che fa saltare il rifugio e da un timbro stilistico che spariglia le carte in tavola. Se la storia segue le traiettorie note del Training Day psicologico impartito dal veterano all’agente rampante e del doppiogiochismo identitario comune a tre quarti di Settima Arte spionistica, la regia riesce a trovare un equilibrio non comune tra innovazione e tradizione. Espinosa dosa secondo le necessità narrative i movimenti di macchina, evitando di appesantire con adrenalina in camera a mano i momenti di stanca e concedendo allo spettatore vie di fuga emotive dai pestaggi duri e dai proiettili a pioggia. Evitata l’isterica “trappola Bourne”, si cerca il realismo e in larga parte lo si trova, nonostante alcuni vuoti di credibilità negli inseguimenti sui tetti e in auto. Tra sorprendenti colpi di scena intermedi e un finale telefonato, la rigidità (in)espressiva di Reynolds è il contrappunto agli incessanti ammiccamenti di Washington, corpo saturo di uno spionaggio americano che finalmente prova a uscire dal prato sempre(meno)verde di Greengrass. E non è poco.
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