Il morbo di Gerber si sta diffondendo a macchia d’olio tra la popolazione. Presentandosi inizialmente come un semplice raffreddore, rivela rapidamente i suoi effetti devastanti, trasformando le persone in zombie molto aggressivi.
Se la trama sfrutta temi già trattati - forse fin troppe volte - e anche se la tecnica con cui viene raccontata la trama stessa, attraverso interviste, può apparire sulla carta priva una particolare originalità, il film del giovane Maxì Dejoie riesce a risultare convincente. La sceneggiatura si fa apprezzare anzitutto per il suo equilibrio: non ci sono immagini di sangue o comunque violente, lo svolgimento non fa altro che andare avanti come se davvero - a tutti gli effetti - una malattia incurabile si stesse diffondendo tra la popolazione. E la vicenda trova la sua nota originale non incentrandosi sugli sconti tra i malati-zombie e le persone sane, come solitamente avviene in questi casi; ma sugli effetti devastanti della malattia. In questo dipanarsi, il film non cerca picchi shockanti ma riesce a trasmettere, poco alla volta, una vaga inquietudine, un’angoscia sottile e persistente. La resa estremamente realistica dei fatti, come se ci trovassimo davanti a una pandemia tangibile e concreta, è il punto di forza di una pellicola uguale, e allo stesso tempo diversa, da tutte le altre dello stesso genere.
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