Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film
Per lunghi tratti della visione, e soprattutto alla fine della stessa, ci si chiede il perché di quest’opera. E si liquida il quesito pensando ad un esercizio di stile formale e sensazionalistico. E già, perché la storia di per sé non significa nulla. In pratica si narra di un’astronauta apparentemente inesperta, che prova a salvarsi durante un viaggio spaziale andato male, provando un atterraggio di emergenza sulla terra.
I protagonisti sono un George Clooney gigione e farsesco, dal fare piacione e verboso, ed una Sandra Bullock a tratti commovente, soprattutto perché deve sbolognarsi più di tre quarti di film avendo come contraltare soltanto le proprie paure ed ammassi di ferraglia poco collaborativi.
Il sensazionalismo di cui si accennava sta sostanzialmente nella confezione. Un’estetica di primissimo livello (la fotografia di Libezki da questo punto di vista è formidabile), che è tra i pregi di un film che per il resto è solo un’esca sensazionale per l’Acadamy che non a caso l’ha premiato (statuette a regia, effetti speciali, fotografia, montaggio, colonna sonora, sonoro, missaggio).
Di sicuro il film si segnala per le interpretazioni degne di nota degli unici due attori impegnati sullo schermo, ma soprattutto per qualche innovazione tecnica e concettuale. In primis, l’audio esclusivamente diegetico con cui è concepito la storia (quello che sente lo spettatore è ciò che sente in realtà il protagonista, sempre); a seguire, e con maggiore evidenza, un uso della macchina da presa a dir poco istrionico: si assiste per esempio ad un piano medio che diventa primissimo piano, per poi evolversi in soggettiva. Tutto in piena continuità, senza stacchi di montaggio.
Il film è in ogni caso valido per due ragioni: convincere definitivamente che Sandra Bullock è un’attrice vera, nonché fungere da materiale utile per scoraggiare qualche ragazzino che ancora nutre il vecchio sogno di fare l’astronauta da grande. L’angoscia di certe scene e di numerose vicissitudini, difatti, scoraggerebbero anche il più incallito degli amanti del cosmo, specie perché l’immedesimazione dello spettatore è pressoché scontata.
Da segnalare inoltre, altra semi-rarità, che il tempo della visione quasi coincide con quello della narrazione.
In definitiva, “Gravity” ha i suoi inevitabili momenti di stanca narrativa, è vero. E non mancano nemmeno le pause lunghe. Tuttavia, ed è questa forse la vera ricchezza del film, sul piano del ritmo e della tensione non perde un colpo.
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