Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film
Lo Spazio come dimensione amniotica, dove gli astronauti si muovono uniti da cordoni ombelicali, le entrate e le uscite dei moduli delle astronavi come uteri meccanici, l’ossigeno nel ventre materno dei satelliti, una donna che diventa simbolo dell’origine stessa della vita, una sequenza finale, in cui si alza dalle acque, come lei, millenni fa, primordiali forme di vita iniziarono a camminare sul suolo terreste, una volta abbandonati i loro mondi marini.
Di nuovo nello Spazio, due astronauti sono gli unici superstiti dopo una tempesta di meteoriti, la ricerca di un modulo che li riporti sulla Terra. La meraviglia della visione digitale, i colori acidi che il mondo offre, una macchina da presa senza gravità, la perdita dei punti di riferimento visivi, le soggettive e i respiri affannati, a piccoli sorsi bisogna consumare l’ossigeno, tenere sotto controllo la paura, Cuaròn costruisce lunghe e ipnotiche sequenze, che deflagrano in collisioni stellari, che trasportano lo spettatore nel silenzio senza peso dell’Universo, ma è ancora una volta l’essere umano a trovarsi fuori posto davanti al mistero del Cosmo, con le sue paure, le sue angosce, la sua finitudine. Il corpo della dottoressa Ryan Stone, una volta liberatosi dalle costrizioni della tuta spaziale, nuota negli spazi angusti dei moduli, il suo è un viaggio che potrebbe significare l’evoluzione stessa della nostra specie, eppure oltre la perfezione tecnica della messinscena e degli effetti speciali, Gravity è una pellicola che non riesce a toccare nessuno dei grandi quesiti filosofici che spesso hanno accompagnato il genere della fantascienza. Concentrandosi sullo spettacolo visivo e riducendo i dialoghi ad una serie inutile di banalità verbali, rimane la sensazione di una esperienza estetica fine a se stessa. Il silenzio assoluto delle stelle avrebbe potuto insegnarci molto di più.
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