Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film
Lo spazio ultima frontiera. Diceva il popolare attacco del telefilm Star Trek. Ma non è così. Le frontiere sono limiti imposti dall’uomo, in natura le frontiere non esistono. L’unica frontiera esistente è quella delle capacità umane, dell’immenso universo che brucia all’interno della coscienza umana. Un mondo che si deve rapportare con l’ignoto, lo spazio, il tempo abbandonando la razionalità per affidarsi all’istinto di sopravvivenza e alla creatività, le ultime risorse latenti nel subconscio per morire e poi rinascere.
Gravity è bellissimo. E’ un film che, come non si vedeva da tempo, impasta l’azione alla tensione emotiva in un contesto fantascientifico , rilanciando le quotazioni del genere dopo le deprimenti uscite recenti.
Fantascienza che diventa spettacolo popolare ma instillando i dubbi filosofici della natura umana, amore, vita, morte, esistenza, il rapporto con il tutto. Senza farsi dotta però, come la fantascienza filosofica anni 70 piuttosto lavorando di pancia, come un film di genere nel quale i personaggi si definiscono dalle azioni che compiono e che sono artefici del proprio destino.
Fantascienza più che filosofica, umanistica, virata sulla verosimiglianza degli eventi con una ipotetica realtà, al netto di libertà artistiche proprie del cinema che Cuaròn si prende per tenere la tensione e l’interesse dello spettatore ancorato al film. Si può discernere di alcune questioni legate alla fisica degli oggetti galleggianti in orbita, come alcune scelte di sceneggiatura, ma Gravity è un solido film di fantascienza nel quale le licenze prese a scapito della verosimiglianza tecnologica/scientifica fanno parte della necessità del cinema, in primo luogo, di produrre emozioni. E Gravity di emozioni ne regala parecchie.
Scritto diretto e montato dallo stesso Alfonso Cuaròn, capace di passare con disinvoltura da Harry Potter, alla fantascienza distopica della società del futuro, fino ai drammi più personali, Gravity è un film di grande impatto emotivo, genuinamente coinvolgente nel quale le sorti della protagonista, Sandra Bullock, per una volta interessano davvero lo spettatore capace di immedesimarsi in una situazione , quella dell’estrema solitudine in un mondo avverso, che è metafora di una condizione psicologica umana avvertibile anche nella delirante società contemporanea, qui, sulla terra. Gravity ne è solo l’iperbole spettacolare.
Durante una missione di routine sullo shuttle in orbita intorno alla Terra, l’ufficiale medico Ryan Stone (Sandra Bullock) e il capo della missione Matt Kowalski (George Clooney) vengono investiti da una nuvola di detriti spaziali causati dallo scontro fortuito di un missile con un satellite russo che distrugge la loro nave e li manda alla deriva nello spazio. L’ignoto spazio profondo. Il vuoto e la disperata necessità di sopravvivenza che aiuta a strappare dal profondo dell’essere risorse inimmaginabili
Dei due personaggi dispersi nello spazio, ne rimarrà solo uno. Sul volto della Bullock scorrono le ombre di un passato tragico . La sua anima, in stato di morte apparente a causa di un lutto dovrà risvegliarsi e attraversare il dolore, i ricordi per - letteralmente - rinascere.
Nello spazio nessuno può sentirti urlare, strillava un famoso film di fanta-horror di fine anni 70. Anche questo è vero. Soprattutto se sulla terra la comunicazione non arriva. L’urlo si sente eccome, nella testa, si ode rimbombare tra le lamiere contorte delle astronavi distrutte in serie da una concatenazione di eventi talmente abnorme e casuale che è assimilabile per incertezza e possibilità statistica alla percentuale di possibilità di sopravvivenza di uno spermatozoo nel suo viaggio, disperato, verso il proprio salvifico approdo. Da qui la rinascita, dopo tanto peregrinare.
Dopo tutto la vita sul pianeta terra sembra che sia arrivata proprio da quell’ignoto spazio profondo che coincide con lo spazio profondo sconosciuto e oscuro dell’animo umano , custode del mistero della creazione.
Lo spazio, estrema espressione della potenza della natura, è dotato di una sua perversa bellezza incastonata in leggi rigorose. Bellezza che si riflette negli occhi e nel sorriso di un sornione George Clooney che affronta il viaggio solitario godendo della vista del suo pianeta da 600 km di altezza e divenendo parte di quel nulla, per l’eternità. C’è una sorta di ciclicità, vita morte e rinascita in questo film, dove la tecnologia a disposizione dell’uomo non è abbastanza per infondere certezza e salvezza, così complessa e fragile al tempo stesso, quanto la materia umana è resistente e tenace. E’ un monologo interiore che si espande quello della Bullock, riempie lo schermo e risorge come da nuova vita dalle acque in uno splendido finale.
L’impianto spettacolare è magnifico e funzionale è il 3D capace di restituire la sensazione di vuoto nel quale galleggiano, corpi, oggetti, fiammelle e le speranze degli astronauti alla deriva. Il tutto senza l’esacerbazione frenetica del montaggio della produzione action contemporanea, piuttosto con una misura di accelerazioni e pause, tempi perfetti scanditi tra introspezione a azione di un film estremamene moderno nel tema ma classico nella messa in scena.
Dura 90 minuti, e forse non a caso . E’ il tempo che i detriti spaziali causanti il disastro ci mettono per completare un’orbita intorno alla terra e ripiombare sui malcapitati astronauti. Corrispondenza di tempi e di luoghi. Lo spazio stereoscopico animato dal 3D cola nello spazio scuro del cinema e si fa un unico frammento spazio temporale. 90 minuti sono pochi. Ma abbastanza per morire, sopravvivere ed emozionarsi.
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