Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film
Mai l’uso del 3D fu tanto efficace e nello stesso tempo indispensabile. Se questa tecnologia è servita a rendere più attraenti alcuni film, in questo viene da dedurre che non se ne poteva fare a meno ed è parte integrante della riuscita.
Per molti film ci son voluti alcuni anni per essere realizzati, alcuni anche diversi anni. Questo è successo anche a Cuarón, che ha lavorato parecchio tempo per realizzare questo film, pare 5 anni, perché non era facile realizzare quello che era anche un suo sogno da bambino: essere astronauta. Beninteso, non era impossibile fare un film con astronauti nello spazio (ne è piena la storia del cinema), ma era praticamente impossibile girarlo per come ce lo aveva in mente, cioè con uniche e lunghe sequenze senza stacchi e successivo montaggio, galleggiamenti fluidi con piroette veloci, sbalzi violenti che allontanano. In pratica non esisteva la tecnologia adatta, l’hanno dovuta quasi inventare apposta: tutto merito di un robot chiamato “Iris”: macchina capace di muovere la mdp su sei assi, calibrando i movimenti al millesecondo, con una precisione prima possibile solo per l’animazione. Il problema principale ovviamente era riprendere scene con i protagonisti che galleggiavano leggeri sia nell’aria della navicella che nello spazio senz’aria. Nei fatti “Gravity” zero. E non recintiamo questo film nel genere di fantascienza. E’ sì un film di intrattenimento, ma lo definirei più un thriller che altro: qui infatti non ci sono le caratteristiche della fantascienza, non ci sono tecnologie oggi impensabili, né viaggi interplanetari con uomini a bordo, né situazioni apocalittiche e future. E’ semplicemente un racconto di un viaggio spaziale come tanti ne stanno realizzando in questi giorni. Lo possiamo definire al massimo un techno-thriller o addirittura una fiction, così come dice lo stesso autore. In più mi piace notare che lo spettatore è un privilegiato, in quanto partecipa al viaggio nello spazio, non assiste alla storia ma si sente immerso e circondato dallo spazio: la luce e il buio che si alternano non sono solo la scenografia che vediamo sullo schermo, ma ci si sente partecipi, ci si sente “nel” cosmo e non è solo merito della tecnologia del 3D.
Un thriller tradizionale inizia con una introduzione, una ambientazione, i personaggi che cominciano a farsi conoscere, diciamo una vita quotidiana che ad un certo punto subisce un sussulto. No, in questo film i guai iniziano immediatamente. Dopo pochissimi minuti i due unici personaggi, che stanno effettuando operazioni di routine all’esterno della navicella spaziale, devono affrontare l’emergenza e lo si capisce con un bel botto, cioè con l’arrivo di detriti derivanti dalla frantumazione di altre navette alla deriva che colpiscono con danni irreparabili parte della loro attrezzatura. Già, i detriti. Tutta la storia gira attorno e a causa dei maledetti detriti. In fondo la vita degli uomini non è sempre ostacolata dalle avversità? Sono le avversità che incontriamo nella vita quotidiana che ci obbligano a prendere decisioni diverse rispetto a quelle che sognavamo, a cambiare strada, a seguire altri percorsi di vita, a dover prendere decisioni sofferte. I detriti che arrivano dal buio infinito (ma proprio qui devono passare, con tanto spazio?) sono la metafora dei guai che capitano alla gente (ma tra tante persone, proprio io?). Beh, questo è quello che capita ai due astronauti: lei è Ryan (“Ma che caspita di nome di donna è Ryan?”, le chiede il chiacchierone del suo compagno di viaggio) e lui Kowalski. Non nascondo che mi son distratto un attimo quando ho sentito questo cognome. Kowalski per me è Marlon, è Clint; invece per Cuarón è Randy Newman, il giovane scavezzacollo che scarica la sua tensione giovanile correndo spericolatamente in auto inseguito dalla polizia in “Punto zero” (Vanishing point) di Richard C. Sarafian.
E così, per colpa di un grave imprevisto, iniziano le disavventure della Ryan nello spazio, alla disperata ricerca della salvezza. I contatti telematici e radio con la base della terra vanno e vengono e le sue richieste di aiuto ricordano parecchio le telefonate disperate di donne in pericolo che aspettano l’arrivo dei poliziotti e le istruzioni per resistere e salvarsi: ricordate “Il terrore corre sul filo”? “Psycho”? Lo spettatore viene coinvolto facilmente dalla storia, appassionante, e si fa ovviamente il tifo, tanto che i 99 minuti passano veramente in fretta.
Spettacolare in tanti momenti, con trovate geniali: in particolare trovo eccezionale la scena delle scie luminose causate dai maledetti detriti che viaggiano come meteoriti fiammeggianti verso l’ignoto, ma anche verso i malcapitati astronauti. E quando lei finalmente approda nella navicella russa abbandonata, prima tappa verso la salvezza, col galleggiamento nell’abitacolo assume una posizione quasi fetale, come a dimostrare la sua nuova nascita alla vita, il modo per “rinascere” nella vita che sembrava allontanarsi e finire. Bellissima sequenza.
Gli attori sono molto bravi e la scelta di Cuarón su George Clooney sembra molto azzeccata. Tutti conosciamo il carattere da buontempone di Clooney e il suo personaggio loquace, allegro e di compagnia ben si addice alle sue caratteristiche. Non so se la sceneggiatura di Alfonso e Jonás Cuarón (padre e figlio) sia stata adattata a lui, dopo che altri avevano rinunciato alla parte. Certo è che le battute brillanti sono cucite addosso al bel George. Da elogiare Sandra Bullock che ha accettato la scommessa del film dopo che in diverse avevano rinunciato, date le difficoltà che riscontravano Angelina Jolie, Natalie Portman, Marion Cotillard. E lei è stata sicuramente all’altezza e per questo elogiata dal regista, anche per la sua duttilità e disponibilità a fare tutto quello richiesto: le sue possibilità fisiche le ha dimostrate tutte. Regia ineccepibile e film riuscitissimo, il che fa pensare a riconoscimenti che non potranno sfuggire. Mai l’uso del 3D fu tanto efficace e nello stesso tempo indispensabile. Se questa tecnologia è servita a rendere più attraenti alcuni film, in questo viene da dedurre che non se ne poteva fare a meno ed è parte integrante della riuscita. Mi è mancata solo una cosa: anche se le musiche sono ben appropriate, se avessero pagato i diritti per “Wish you were here” sarebbe stata veramente la fine del mondo.
Bello e godibile, fatto benissimo. Voto 7 ½.
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