Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film
Hollywood, abbiamo un problema.
Gravita verso il centro di incredulità permanente, l’acclamata opera di Alfonso Cuarón, seguendo rotte apparentemente preziose ma in realtà abusate da una vita.
Ma quali istanze filosofiche e scientifiche, quali dotte metafore, quali concetti profondi sull’uomo la sua natura e la spiritualità, quali pretese autoriali: Gravity è un mero “survival movie” che celebra - perché non se ne ha mai abbastanza - l’ennesimo “american hero”, di quelli che partono svantaggiati, affrontano in serie situazioni avverse, al limite, scovano risorse e forze prima ignote, per poi uscirne temerari (ma sofferenti) vincitori in uno svolazzar di retorica tale che provoca una tempesta di detriti della logica e del buon senso.
Insomma, un Cast Away lost in space.
Però vestito bene, voltato verso l’azzurro splendido splendente di madre Terra, con lucenti astri a far da fastose dame di corte. Che poi sia tutto finto, ricostruito dai creatori degli effetti speciali, è solo un dettaglio, un (trascurabile) elogio del CGI (e del 3D, invero niente per cui andare in visibilio).
Il passo greve, “impegnato”, è pura subdola ostentazione (le pretese di cui sopra), ma anche e soprattutto un furbesco camuffar lo schema vincente. Che è di una semplicità - ovvero banalità - disarmante: l’eroina è in pericolo (da ricordare che la colpa di tutto è di quei pasticcioni ubriaconi dei russi), la situazione peggiora, lei sta per cedere, magicamente ha un’illuminazione illuminante (?!), la mette in pratica (alla cieca), infine ce la fa. Con la gradita assistenza della (misericordiosa) dea (s)bendata, giacché il successo si palesa appena una frazione di secondo prima che tutto attorno venga inghiottito nelle poco confortevoli oscurità dello spazio infinito (salvifiche - quanto inspiegabili - visioni in sogno comprese). Trovato lo schema, fatto il film, poiché quello viene ribadito, ripreso, riciclato: yeah, il trionfo della ripetitività.
E disegno elementare su cui scarabocchiare - un po’ a caso un po’ per caso un po’ per far casino - qualche simbolismo da spacciare per riflessione superintelligente (vedi la posizione fetale assunta dalla Nostra nel grembo di un’accogliente navicella) e un finale toccar/sporcarsi di terra significativo ed evocativo (mah …).
A certificare la gravità del “problema”, la pazzesca sequela di assurdità svendute senza neanche tanto affaccendarsi o curarsi delle possibili reazioni. Ad un certo punto la tosta dr.ssa replicante ripleyana dr.ssa Stone si proietta come un proiettile fuori da una carcassa lanciata a folle velocità verso la nave della speranza correggendo la direzione con un estintore, un po’ come faceva il giovanotto de Il mio amico Ultraman con le bombolette di lacca per capelli.
Ad ogni situazione critica corrisponde una reazione imprevedibile e geniale uguale e contraria: la legge di MacGyver, altro che relatività. Altro che realismo.
La protagonista Sandra Bullock è volitiva e mostra un gran fisico androgino, ma non risulta granché convincente né tantomeno riesce a conquistare (ed affascinare); il suo compare, che presto schiatta in quanto sacrificatosi (toh, mica poteva mancare), ha la faccia e la “simpatia” di George Clooney. Che fa esattamente il George Clooney: ovvero, alla prima inquadratura, alle prime “divertenti” battute, già indispone.
Non irrita ma nemmeno impressiona il deboluccio commento sonoro di riporto, mentre la fascinazione visiva è indubbia (e di pregio: vedasi alla voce direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, sprecato), sebbene un po’ fugace (ché tende a stancare); e comunque non basta a nobilitare il rozzo comodo gioco del caos che partorisce la (tipicamente americana) esaltazione dell’uomo (che di per sé non costituisce certo un peccato o una vergogna: basta saperlo, eh).
Sarà pur già esaltato da più parti come fulgido esemplare di fantascienza intelligente di serie A (è destinato a raccogliere i premi più importanti) ma Gravity difetta di “normale” onestà.
Hollywood, abbiamo un pacco.
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