Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film
Quando i kolossal hanno sentimenti. Da brividi: un viaggio straordinario di fronte a un nuovo sublime. Si possono sprecare i paralleli con il cinema sovietico di fantascienza, (il Solaris tarkovskijano) e con 2001 di Kubrick, ma la realtà è che Gravity non assomiglia a nulla, anzi, assomiglia a noi, alla nostra natura, all'insoddisfazione della nostra finitezza. Cuaròn percorre il ciglio fra due burroni, propone tutto senza esagerare, vagando e volteggiando come i due protagonisti fra il blockbuster hollywoodiano e il cinema d'autore, fra la finitezza umana e l'infinito spaziale, fra la razionalità tecnologica e l'irrazionalità della distruzione. Fino a che punto può la nostra coscienza, infinita dispensatrice di sofferenza, farci "schiantare" contro una realtà che si perde nel buio interstellare, una natura ostile ma bellissima, un nuovo sublime kantiano? Se l'avesse visto Caspar David Friedrich, lo spazio, avrebbe scelto ben altro sfondo per il suo Viandante, per raccontare come ci sentiamo pressati e come, allo stesso tempo, sentiamo il bisogno di "naufragare dolcemente in questo mare". Il nostro sguardo volteggia e si perde, la regia si nota ma si autoannulla, posizionandosi in spazi impossibili, astraendosi e dando al film un senso di epicità che non credevamo ancora possibile, ribaltando la concezione wilderiana secondo cui "la migliore regia è quella che non si vede". Certo, lascia qualche dubbio la scelta di questi due attori protagonisti, due celebrità famosissime, che qui dànno il meglio, ma che annullano la basica normalità di uomini di fronte all'ignoto dell'eroismo; ma questo non toglie nulla alla loro interpretazione, che riempie lo schermo senza far pesare l'assenza di un cast più numeroso, ma accerchiando tanta solitudine di tanta grandezza mastodontica. Non è una nuova trovata di Cuaròn, ma qui è strabordante questo messaggio: se l'universo è vero, ed è impalpabile, ed è il vuoto gassoso, l'annullamento cromatico, allora come possiamo ancora credere a una Natura razionale? La verità è che la meraviglia ci viene messa davanti agli occhi, con conseguenze a tratti troppo edificanti, a tratti troppo simboliche, ma superbe, e noi la accettiamo con un profondo desiderio-paura di dissolverci. La Natura qui è addirittura infida, oltre che diffidente, ci mette alla prova, ci blocca, ma l'uomo conosce la grandezza della sua interiorità, quella grandezza originata dalla stessa possibilità di concepire anche solo emozionalmente l'infinito, e così (soprav)viviamo, moriamo, sognamo, e quel buio di infinita angoscia non può farci nulla. Ci prendiamo la nostra rivincita vivendo sul Bordo, tra vita e morte, come può avvenire anche sulla Terra, ma che sullo spazio diventa il Bordo dell'intera umanità. Quindi non curiamoci di qualche incoerenza tematica, a partire dalle intenzioni metaforiche (la Bullock-feto col cordone ombelicale, la rinascita dall'acqua) con l'insistita contingenza della protagonista, che annulla qualunque generalizzazione propria della metafora: curiamoci piuttosto della bellezza formale e della sensibilità drammatica che Cuaròn dimostra di avere di fronte a drammi umani di tale minuscola enormità. Gli ossimori dell'anima, quand'essa è posta di fronte all'Assoluto diventato (co)scienza (e di fronte al quale essa fallisce miseramente). Ryan dice: "Alla fine non è stata colpa di nessuno". Che voglia insinuarsi il Caos-caso primordiale, rievocato dai frammenti di satelliti frantumati e che abbracciano il nostro sguardo? Però che eleganza - è vero? - quel Caos primordiale, che straordinarie albe può contemplare l'uomo-George Clooney dietro un orizzonte che vede anche di giorno il nero dell'assenza. "Quanto odio lo spazio". Quanto odiamo la Terra. Quanto odiamo la nostra sofferenza. Ma siamo noi. Ricordiamoci di Talete, torniamo a guardare il cielo e le stelle, ma non scordiamoci che c'è la Terra sotto di noi. Qui però al contrario: guardiamo la Terra, però attenzione al risucchio dell'Assoluto alle nostre spalle. Godiamoci la nostra sofferta contingenza.
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