Regia di Baz Luhrmann vedi scheda film
Tutte le citazioni sono tratte dal romanzo di Francis Scott Fitzgerald Il grande Gatsby, nella traduzione italiana di Fernanda Pivano. La vicenda del film è infatti la stessa, con l'aggiunta dello psichiatra, che esorta Nick Carraway, voce narrante del film e del romanzo, a scrivere le proprie memorie per liberarsi dei fantasmi del passato.
Siamo a New York, nel 1922, cioè in uno di quegli anni che, dopo la grande guerra, furono caratterizzati dall’illusione dei facili arricchimenti, dalla voglia di farcela nonostante tutto, dal sogno americano, insomma.
Migliaia di persone, animate da una sorta di ottimismo della volontà, si erano date l’obiettivo del riscatto sociale, nella convinzione che, nel paese delle opportunità, le origini familiari, per quanto umili, sarebbero state annullate dal successo, mentre la povertà sarebbe rimasta appiccicata addosso come una colpa.
Sono, però, anni anche molto inquieti: ci si vuole arricchire in fretta, ma le vecchie classi dominanti diffidano dei nuovi ricchi, ne temono la concorrenza, non solo negli affari, e si chiudono in difesa delle loro posizioni privilegiate.
Temono, infatti, che, per il bisogno crescente di uguaglianza, si affermino pericolose tentazioni sovversive, che i “negri” pretendano i diritti dei bianchi: si fa strada una visione razzista e reazionaria di cui il personaggio di Tom Buchanan (Joel Edgerton), nel romanzo, come nel film, è l’incarnazione “Dipende da noi, che siamo la razza dominante, stare attenti; altrimenti queste altre razze prenderanno il controllo di tutto.”
Del resto, la sua giovane e graziosa moglie, Daisy (Carey Mulligan), gli fa eco: “Dobbiamo sterminarle”.
Daisy era stata, cinque anni prima dei fatti raccontati, innamorata di Gatsby (Leonardo di Caprio), che “la fissava come tutte le ragazzine desiderano essere fissate una volta o l’altra”, conosciuto quando si accingeva a partire, come ufficiale, per la guerra in Europa, dopo la decisione americana di intervenire (1917).
Anche Gatsby era attratto da lei, per la sua bellezza, indistinguibile dal sentore di ricchezza che promanava persino dalla sua voce, che, secondo la definizione dello stesso Gatsby, era “piena di monete” (curiosa ma significativa la sottovalutazione di questo particolare nel film, indizio dell’ eccessiva banalizzazione di tutta la vicenda, che non è solo la storia di un amore, perché Daisy è, sul piano simbolico, il sogno americano di Gatsby).
La fanciulla sembrava ben decisa ad attendere il ritorno dalla guerra del bell’ufficiale, ma la sua agiata e importante famiglia era stata ancora più decisa a farle sposare Tom, uomo di Chicago, di favolosa ricchezza. Né il matrimonio, né la nascita di una bimba avevano però soddisfatto Daisy, che, dopo un periodo di infatuazione per lui, si era resa conto di essere stata costantemente tradita, in modo piuttosto arrogante e sfrontato. La coppia, al momento del racconto, abita a New York, in una grande e lussuosa villa neoclassica nel verde, di fronte al West Egg di Long Island e proprio davanti al misterioso e sontuoso castello, fatto sorgere non casualmente proprio lì da Gatsby, che ora, dopo aver fatto fortuna per sentirsi degno di lei e della sua ricca famiglia, è deciso a riconquistarla, non ignorando le molte voci inquietanti e forse calunniose sul suo passato e sull’ ingente ricchezza, non si sa come accumulata. Le feste sontuose e aperte al bel mondo new-yorkese, che ogni venerdì sera si svolgono nel castello di West Egg, vengono offerte nella speranza di vedere, prima o poi, anche lei affacciarsi a quella porta. Solo la mediazione di Nick (Tobey Maguire), vicino povero di Gatsby e cugino di lei, però, renderà possibile il primo ritrovarsi dei due e il successivo ingresso della bella Daisy in quella stravagante dimora, ricca di una biblioteca di libri mai letti, nonché di guardaroba traboccanti di magnifiche camicie di seta, ma piena di stanze inabitate e cupe.
Gli altri percorsi narrativi che, intrecciandosi strettamente alla vicenda dei due amanti e degli adultèri di Tom, porteranno all’epilogo tragico della storia di Gatsby, vengono sviluppati fin dalle prime pagine del romanzo e del film, ma, in quest’ultimo, subiscono un notevole rallentamento, dovuto all’irrompere, nel tessuto del racconto, di lunghissime sequenze descrittive, costruite con dovizia di particolari davvero smodata, secondo il gusto kitsch di Luhrmann, già presente nel precedente Moulin Rouge (2001).
Il regista accumula nella rappresentazione delle feste di casa Gatsby un eccesso di ori, lustrini, piume, musiche (non solo il jazz degli anni 20, ma, con vistosi anacronismi, pezzi anche famosi scritti in epoche successive), danze, wisky e champagne, che rispondono soprattutto al bisogno di riempire l'horror vacui, in modo alquanto fastidioso, senza rendere giustizia alla grazia del romanzo, che è sottile e difficile, pieno di simboliche corrispondenze.
In molte sale il film addirittura è stato proiettato in 3D, così da suscitare ulteriormente l’ingenua meraviglia dello spettatore…
Il capolavoro di Francis Scott Fitzgerald avrebbe meritato davvero qualcosa di meglio dell'illustrazione enfatica degli aspetti edonistici, e della piatta parafrasi del resto del racconto. Peccato!
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