Regia di Baz Luhrmann vedi scheda film
Per avere un’idea di quale sia la differenza tra un regista qualsiasi e Baz Luhrmann, basta ricorrere ad una proporzione numerica, quella relativa alle volte che si ricorre all’intercalare “vecchio mio” nella versione di Jack Clayton del film “Il grande Gatsby” del 1974 (quattro o cinque in tutto) e le volte in cui lo stesso intercalare è proferito dal protagonista nella versione del regista australiano, ben 38!
Nella poetica di Luhrmann tutto è ipertrofico, e per di più se esiste una componente minimamente ludica della scrittura, è l’occasione buona per esaltarla, facendone la matrice principale del lavoro. Com’è vero che la versione del ’74 del film tratto dallo splendido romanzo di F. Scott Fitzgerald era piatta e lentissima, è altrettanto vero che qui lustrini e paillette si intravedono anche in luoghi inattesi, al punto che laddove altrove è possibile parlare di “rivisitazione storica” dell’epoca del proibizionismo, qui il tutto assurge a “riconsiderazione in chiave vintage”. Se altrove c’è ricerca fedele, qui siamo di fronte ad una (elegante, per carità, ma comunque fasulla) interpretazione personale. Il regista segue il canovaccio di Fitzgerald, ma fin dalle premesse se ne infischia dell’aderenza, tantomeno della coerenza, su tutti i fronti: l’istrionismo cromatico contrasta con le foto alle pareti (necessariamente) in bianco e nero, i prodigi tecnici sono applicati in scene con costumi anni ’20, ed il charleston si balla con musica elettronica di sottofondo (nonché su cover di Amy Winehouse o hit firmate Lana del Rey). Ma la scusante dell’interpretazione tracima presto, inondando finanche la caratterizzazione dei personaggi (Daisy è dichiaratamente cinica nel finale, mentre l’approccio all’identità di Gatsby – nonché l’affidamento a Di Caprio del personaggio – lo disegnano come una sorta di Frank W. Abbagnale di “Prova a prendermi” o di massone nella scena del retrobottega della barberia). Tuttavia, nonostante l’interpretazione della regia e soprattutto della sceneggiatura siano molto fantasiose, il messaggio finale appare chiaro e coerente: è come se si decidesse volutamente di percorrere una strada più lunga e tortuosa, ma alla fine si arrivasse comunque per primi al traguardo.
Se si accettano le forzature ed i ricami di Luhrmann, il giudizio sul film non può essere che positivo, data la spettacolarità, ma anche l’incisività e la coerenza. In caso contrario, alla domanda che il protagonista Nick Carraway formula dando ascolto alle fandonie sul conto di Gatsby (“Se lui non esiste… tutto questo a che serve?), l’altra categoria di spettatori può rispondere con certezza “A permettere che Luhrmann continui a fare film”…
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