Regia di Baz Luhrmann vedi scheda film
Quando il grande romanzo americano dei ruggenti anni venti incontra Baz Luhrmann , regista glitterato del depresso decennio del terzo millennio, il risultato non può che essere questo The Great Gatsby. I roaring twenty, esplosivi poiché sorretti da una bolla di luminescente benessere e fiducia in futuro radioso sempre più a portata di mano, si accordano a questi anni tristi, schiantati da un futuro sempre più lontano, solo per fatuo brillìo dei lustrini. Una lucina nel nulla nebbioso economico e sociale che ben si accorda alla melanconia del multimilionario Gatsby che sul pontile brama quel barlume verdastro al di là della baia più di qualsiasi altra cosa. Il finale sarà tragico, questo si sa. Di questi tempi i lustrini e le scosciate charleston sanno di decadente, dozzinale circo di quart’ordine. Quello dove le trapeziste finito il numero volante corrono a preparare il pranzo alla compagnia e l’Uomo più Forte del Mondo dopo il numero delle catene spezzate col torace corre a pulire la gabbia di leoni, lesi nella maestà da un’obbediente vita in cattività.
Divago. Ma non tanto. I leoni del benessere de Il grande Gatsby di Jack Clayton del 1974 incarnano l’indolente tedio della decadenza strisciante, esplicita nelle pose da melò di quart’ordine, nella fotografia flou che sa di pomeriggio afoso e sudore ignorato dall’eleganza blasé dei completi di lino.
Una decadenza annegata nel tedio di giovani adoni mollemente adagiati su divani, tra stanchi tradimenti e emozioni rarefatte in una vita d’agi, quasi forzati nello sfarzo di un benessere che non lascia scampo. Una decadenza morale, intellettuale e sociale che nel 1929sprofonderà, come in ogni società o psicologia bipolare, nella Grande Depressione che sempre segue la Grande Eccitazione. Tedio che accorda l’umore dello spettatore alla natura del film.
The Great Gatsby di Baz Luhrmann prende a riferimento questo film molto più di quanto non faccia con il capolavoro letterario di F. Scott Fitzgerald per raccontare la storia moderna ma non troppo del misterioso milionario Jay Gatsby , innamorato della fragile Daisy Buchanan, leonessa della buona società ammansita da un matrimonio fiabesco e come tutte le fiabe che si rispettino, imprigionata nella torre in attesa del cavalier servente. E se il progenitore – almeno quello più famoso – non era tutto sommato quel capolavoro ricordato da milioni di passaggi in tv distratti da spot che forse ora potrebbero anche entrare di diritto nella trama principale per tedio e diluizione delle tempistiche narrative, il film di Luhrmann provoca un effetto nostalgico che rivaluta il Robert Redford sempre candidamente agghindato, la sciocca e superficiale Mia Farrow che antepone gli agi materiali ai sospiri del cuore e una grandiosa Karen Black, anema e core della società popolare , variopinta, un po’ neo cafonal direbbero oggi, ma assolutamente vitale e carnale.
E’ inevitabile parlare di un film per presentare quell’altro, quello nuovo, quello in cui nella prima mezz’ora il cinema sincopato di Luhrmann che fece dell’estetica la materia di un cinema postmoderno con Romeo + Giulietta e diede fiato al memorabile musical Moulin Rouge, presenta stacchi che non superano i 4 secondi di durata, in cui la scintillante ridondanza post produttiva del digitale sostituisce lo sfarzo del reale facendo del posticcio lavirtù cinematografica tanto quanto i lustrini , le piume e i belletti dei roaring twenty incarnavano la voglia di appartenenza ad uno strato sociale elevato. The Great Gatsby si dimentica del senso del grande romanzo americano per concentrarsi sull’estetica techno pop di circense fattura, per la quale gli invitati alle feste di Gatsby ballano il twist su musica contemporanea, da Lana Del Rey a Beyoncè, Florence and the Machine fino a Will.i.am dei Black Eyed Peas, e sulla chiarificazione pedissequa di tutti i risvolti narrativi, sciorinati a scopo lenitivo delle frustrate esigenze del pubblico massmediatico che brama il chicomequando della storia di Jay Gatsby come fosse un pettegolezzo da merceria o una puntata di telenovela televisiva. In realtà nulla ci frega nulla di chi fosse e in che modo Gatsby abbia fatto i soldi e per chi, alone di mistero che nel film di riferimento rimaneva tale come un’ombra appiccicosa al corpo elegante di Redford.
Quello che dovrebbe essere sottinteso, filtrato da un sospetto o una percezione personale viene spiattellata sullo schermo, così come l’ infanzia triste del bel milionario è riassunta in un flash back pretenzioso e inutile.
Così se il meglio sono le feste, la coreografia videoclippara della confezione multicolore di ciò che è meno importante, la storia mostra la corda , la sceneggiatura si sfalda in rivoli inutili e l’interesse scema, annoia, tedia.
Ma di un tedio diverso dal film del 1974. In questo calderone il ricalco delle scene del predecessore è pressoché totale come modello a cui aggiungere sfarzo estetico. Più fiori. Più luci. Più caos. Più veloci le macchine, riprese in duelli che sembrano videogiochi.
Si viveva così nei ruggenti anni venti e le auto ruggiscono ma rimangono pulite, senza odore di benzina o l’ombra della fuliggine del bacino carbonifero che separa la realtà della città dalla baia dei ricchi, come se fossero – e lo sono – modelli tridimensionali su fondali renderizzati. Questa freddezza si nota, e stona. Stona sui visi dalle lacrime posticce, dalle troppe luci che insistono nei primi piani, nelle rughe piallate, nei manichini che si muovono dando meccanicamente prova della storia senza possibilità di viverla.
Si salva Di Caprio nei panni di Jay Gatsby; fa da catalizzatore delle emozioni altrui Tobey Maguire; la presenza fisica di Joel Edgerton (Tom Buchanan) è possente ma non affascina. Affondano invece senza pietà le figure femminili. E questo è il difetto peggiore di un film sbagliato come approccio.
Carey Mulligan è totalmente fuori parte, non adatta a interpretare la sciocca, superficiale Daisy come fece l’ambigua Mia Farrow sempre sospesa tra il romanticume da romanzo d’appendice e una solida tenacia calcolatrice nel scegliersi il partito migliore. Soprattutto manca nella caratterizzazione di Myrtle, amante di Tom Buchanan, marito di Daisy, un personaggio fondamentale per dimostrare la differenza di classe tra lei e il mondo al quale ambisce.
Quella che era una debordante, variopinta, passionale, a suo modo buffa e ingenua ragazza di umili trascorsi con ambizioni di scalata sociale, Karen Black, è sostituita da un’anonima Isla Fisher, figura di contorno che fa solo da perno per mandare avanti la storia.
The Great Gatsby di Luhrmann assomiglia alla Myrtle di Karen Black nel film di Clayton, ambizioso e tutto fiocchi ma senza il suo stesso cuore passionale. Infatti lei non c’è. Peccato, vecchio mio.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta