Regia di Giorgio Capitani vedi scheda film
Ad uno Spaghetti-Western basta l’Almería, un nutrito numero di volti da urlo e qualche bizzarria, poi il gioco è fatto. Ti innamori perdutamente del film e dei personaggi. Ancora meglio quando a tutto questo aggiungi una sceneggiatura solida e piena di sottotesti, una regia precisa e consapevole, e soprattutto una messa in scena che fa la differenza. Questo è Ognuno per Sé diretto da Giorgio Capitani nel 1967 su sceneggiatura di Fernando Di Leo e Augusto Caminito. Il film è inseribile nel filone gotico, anche se più che gotico è goticheggiante. Una serie di luoghi western vestiti in abito nero diventano scenari goticheggianti senza perdere l’anima appunto western fondamentale. Parlo soprattutto della ermita abbandonata, una bellissima ghost-town ricavata da precedenti scenografie in quel di Las Salinas, una spianata affascinante all’inizio del deserto di Tabernas (zona che ho già camminato diverse volte e che conosco personalmente). A questo bellissimo luogo cinematografico totalizzante si unisce chiaramente il deserto di dune di sabbia con attraversamento annesso, e tutte le sequenze ambientate alla miniera, comprese quelle all’interno di essa. Il fim si può ben rileggere come un’antologia dei più importanti ambienti della narrazione western uniti tra loro da uno dei temi fondanti dell’intero genere: il viaggio. Infatti, il vecchio Sam Cooper ovvero un grandissimo e generoso Van Heflin che non ha nulla da invidiare al giovane Dan Evans di Quel Treno Per Yuma del ’57, trovato l’oro nella sua miniera attraversa in ordine: il canyon che porta alla miniera, il deserto di sabbia, la vecchia ermita abbandonata, le montagne arcigne, un grande fiume da guadare e infine la cittadina western. Ogni ambiente il suo pericolo, la sua azione centrale, un motivo da modulare. E dopo il reclutamento dei futuri soci minatori si ripete nuovamente lo stesso percorso con nuove peripezie, e nuove saranno nel terzo viaggio di ritorno dove chiaramente in un tutti contro tutti più psicologico che fisico si arriva al gran finale.
Il film è uno dei migliori SW in assoluto. Sia per la regia azzeccata, sia per la sceneggiatura matura di Di Leo/Caminito, sia per il parco attori di lusso, ma anche per il fascino delle modulazioni narrative. Non c’è una scena in cui manchi l’azione, che sia fisica o psicologica. Non c’è modulo narrativo inefficace. In ogni nucleo emerge perfetto il proprio cronotopo e questo permette di leggere la sottotraccia mitica in termini universali e non più soltando di genere. Uno degli aspetti in questo senso più chiaro e lampante è la sottotraccia omoerotica che lega il personaggio di George Hilton a quello di Klaus Kinski oltre che a quello di Van Heflin. Si può ipotizzare che tempi addietro il bel giovane Hilton era il “figlioccio” di Van Heflin che lo curava e gli dava da vivere in cambio di qualche particolare attenzione. Relazione questa che continua con il personaggio di Klaus Kinski, detto il Reverendo, e che scatena una specie di gelosia nel vecchio mentore. Un triangolo gay spudorato. A mio avviso è molto di più di un sottotesto. L’emersione della relazione ambigua tra Hilton e Kinski è palesata anche dalla loro recitazione chiaramente allusiva e da diversi altri elementi narrativi. Uno su tutti: la sigaretta che Kinski spegne sul braccio di Hilton dopo una escalation di tensione omoerotica. La scena è stata tagliata per via della solita inqualificabile censura moralistica dello stato cattolico, ma il taglio è stato apportato in modo che sia ugualmente intuibile il gesto e quindi l’originale intenzione.
Nel film chiaramente c’è molto altro. Altri temi fondamentali sia della pellicola che del genere stesso sono per esempio l’oro e l’avidità della ricchezza e la grande rielaborazione leoniana del tutti contro tutti. Dopo il triello de Il Buono, il Brutto, il Cattivo aumentano esponenzialmente i fim in cui più personaggi cercano di fregarsi e ammazzarsi tra loro. Ognuno per Sé non è da meno e visto che il titolo originale prevedeva un ...e Dio con Nessuno poi cancellato, il film porta in nuce il suo carattere principale ed il suo tema fondante, la lotta psicologica tra caratteri, uno dei massimi piaceri dell’arte narrativa che con il teatro e poi con il cinema arriva a momenti di catarsi assoluta. Non da meno è il tema del viaggio, qui non tema principale, ma comunque ricorrente. La ciclicità ed il suo senso angoscioso di ripetizione, quasi inazione, portano questo tema a soffocare i suoi originali significati di libertà, fuga e conoscenza e ad esaltarne invece i contrari di costrizione, inseguimento e dubbio. Chiosano il tema i luoghi deputati al suo percorso. Dal guado del fiume, con la sua vastità orizzontale benedetta dall’elemento liquido vitale per eccellenza, al suo diretto opposto: il deserto con la sua vasta orizzontalità arida e spregiudicata; dalla città americana con saloon e alberghi e la sua riproduzione patologica nell’accampamento degli avidi minatori, fino all’opposizione totale di esse nell’ermita abbandonata dove rovine e luoghi corrotti dal tempo restano tra gli scenari più intimamnte legati all’ambiente naturale del western.
Ma se il film è un classico capolavoro del genere lo è anche per la gara di bravura dei quattro attori principali ai quali va giustamente aggiunto un caratterista di razza come Rick Boyd. Loro sono Van Heflin, Klaus Kinski, Gilbert Roland e George Hilton. Il vecchio protagonista e gran bevitore nella vita e sul set è a fine carriera un attore capace di comunicare con poco il massimo possibile, forse per il bagaglio accumulato in una carriera. Una presenza scenica paragonabile solo a quella del suo diretto rivale, il Reverendo Klaus Kinski, personaggio spettrale che riempe la scena con una classe borderline impagabile nonostante fosse ancora agli inizi della sua carriera nel genere italiano. Il suo personaggio è l’anima nera dell’intero film, e fa il paio in controluce con il bel biondino interpretato da George Hilton, qui davvero in una mise che lo avvicina ai più seducenti Terence Hill e Franco Nero. Non da ultimo, ma slegato intenzionalmente dal trio Van Heflin-Hilton-Kinski è Gilbert Roland. La vecchia volpe s’era specializzata in ruoli in linea con l’archetipo Lee Van Cleef, pistolero taciturno, elegante, di una certa età e con un certo fascino latino. É lui infatti la pedina misteriosa che scostandosi dal trio omoerotico porta la narrazione, o meglio la riporta, sui binari del conflitto puramente western, quello scaturito dalla corsa all’oro e dall’avidità dei personaggi. Nell’insieme quattro assi che non si rubano spazio tra di loro e sanno stare al loro posto contribuendo così a rendere ogni modulo narrativo efficace e godibile da più punti di vista, soprattutto quelli dell’azione fisica e cinematografica e del duello psicologico tra caratteri.
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