Regia di Kim Sun, Kim Gok vedi scheda film
Quattro ragazze e un video maledetto. Le Pink Dolls sono un complesso pop, che, dopo una deludente partecipazione ad un concorso televisivo, cerca disperatamente di raggiungere il successo. Il segreto per scalare le classifiche sembra essere contenuto in un vecchio videoclip, registrato su una cassetta VHS, che improvvisamente riaffiora, a distanza di anni, dietro allo specchio di una sala prove abbandonata da tempo. Il brano che vi è inciso si intitola White, ma le immagini e il suono sono di bassa qualità. Impossibile accorgersi che qualcosa, in quella ripresa, è davvero molto strano. Ed è difficile, anche a posteriori, quando quel filmato ha ormai incominciato a seminare la morte intorno a sé, riuscire a identificare, nei suoi fotogrammi, i dettagli che potrebbero fornire la chiave del mistero. Un giallo con elementi soprannaturali si sviluppa all’interno dell’ambiente discografico coreano, con intrigante spettacolarità, ma con una mediocre gestione della suspense. Un’esplosione di note, lustrini e luci psichedeliche prevale nettamente sugli elementi horror, che compaiono, come sporadiche spruzzate carnevalesche, a base di apparizioni e piogge di sangue, però con scarsa incisività. Il quadro è complessivamente festoso e confuso, ravvivato dalla voglia di sfondare e dallo spirito di competizione, e contemporaneamente incupito dalle rivalità che non tardano ad emergere tra le componenti del gruppo. L’atmosfera è sfavillante e velenosa, come in una telenovela disegnata con i tratti iperbolici di un manga, in cui la mostruosità è una bestia facilmente domata dall’avvenenza di giovani eroine. Fallimento e rancore si trasformano in energie demoniache, che, però, si amalgamano subito con l’anima dello show, facendo sì che magia nera e magia televisiva si fondano in un’unica surreale finzione, di cui esse rappresentano, rispettivamente, il lato nascosto dietro le quinte ed il volto esposto al pubblico. Il making of di un mito musicale e dei suoi risvolti meno nobili è appena offuscato da alcune brevi intrusioni da parte di fantasmi e visioni grottesche, che si propongono sotto forma di ingenui anacronismi in un contesto altamente tecnologico, il quale, per altro, prontamente li liquida come fenomeni patologici di poco conto. Intanto l’intreccio arranca, e anche le emozioni restano indietro, tenute a malapena in vita dal superficiale fascino del favoloso mondo in cui, tra talent show ed iniziative pubblicitarie, nascono, più o meno dal nulla, le giovani stelle della canzone. La regia di White strizza a fatica, da una sceneggiatura malferma, fino all’ultima goccia di una drammaticità esteticamente accattivante, ma invariabilmente tiepida: un ritratto un po’ naïf di un’innocenza sognante, macchiata dall’invidia e dalla gelosia, eppure ancora immersa nella classica bellezza acqua e sapone. Un’icona fanciullesca su cui svetta una chioma di capelli lucidi e bianchissimi, simbolo di un’eccentrica ambizione che si accosta, sia pur in maniera un po’ pretestuosa, al candore delle visioni angeliche. Un paradosso che colpisce e non seduce: una dei tanti effetti mancati di questo film, che disperde il proprio potenziale incanto in un’affannosa ricerca del colpo di scena, giungendo sempre impreparato al fatidico momento della rivelazione.
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