Regia di Marlon Rivera vedi scheda film
La donna nella fossa biologica. Ma questo non è un horror. Il candidato filippino al premio Oscar 2012 è un saggio sul cinema possibile. Sui tanti modi in cui questo può rappresentare la realtà, amandola, trasfigurandola, fino a dimenticarla e a lasciarsi travolgere da essa. La creatività, soprattutto quella più ingenua, e quindi più disinteressatamente appassionata, è un trasporto cieco, che vede la bellezza anche nella bruttura, e per questo le corre incontro a braccia aperte, senza paura di esserne contaminata. I sudici sobborghi di Manila, tra baracche e fogne a cielo aperto, sono il luogo in cui tre giovani cineasti, il regista Rainier de la Cuesta, il produttore Bingbong e la sua loro assistente Jocelyn, sognano di realizzare il loro primo film: un’opera indipendente, che vuole scioccare il mondo sbattendogli in faccia lo squallore, il quale, in tal modo, diventa una ricca sorgente di suggestioni fantastiche, in cui affondare con gioia le mani. La miseria, soprattutto quella più nera, è uno spunto dal quale l’immaginazione può partire per un lungo viaggio, utilizzando una molteplicità di mezzi e percorsi, che interpretano la stessa storia secondo gli accenti delle diverse emozioni visive. Mila, una giovane madre che vive in un locale angusto e fatiscente insieme ai suoi sette bambini, divide con loro, come tutti i giorni, una singola porzione di cibo preconfezionato: quello che, da sempre, costituisce il loro unico pasto quotidiano. Nell’inquadratura successiva, la donna, nel cortile antistante la sua abitazione, lava una delle sue figlie, alla quale, poi, farà indossare un vecchio vestitino della domenica. Quindi la vediamo mentre, attraversando le stradine della bidonville, conduce con sé la piccola, tenendola per mano. Giungeranno nel centro della città, ed entreranno in un lussuoso condominio, dove un uomo anziano in vestaglia aprirà la porta del suo appartamento, prendendo in consegna la ragazzina. Questo scorcio di vita degradata occupa le sequenze numerate da 35 a 40 nella sceneggiatura che i tre protagonisti stanno cercando di mettere a punto. Le ripenseranno, le cambieranno, le articoleranno secondo i registri del film muto, del documentario, del musical, della soap opera. Cercheranno di portare avanti il loro discorso in un contesto ostile, in cui, purtroppo, il successo commerciale è il criterio dominante, le attrici sono stelle della tv ed i registi sono vanesi animali da festival. Il loro scopo è riportare lo scintillio dello spettacolo al livello del terreno invaso dai rifiuti, per plasmarlo con i materiali dell’arte povera, senza sovrapposizioni estetiche che soffochino la naturale poesia della verità. Alla fine sarà quest’ultima ad avere la meglio, sia sulle loro giovanili illusioni, sia sui compromessi a cui gli adulti vorrebbero piegarli. La regia di Marlon Rivera segue, con straordinaria malleabilità espressiva, il dinamismo della loro fantasia e delle loro conflittuali interazioni con l’ambiente circostante. Uno stesso tema viene intonato secondo le mutevoli melodie del dramma, della commedia, del reality show, della fiction televisiva, sino a che un tonfo sordo giunge, d’un tratto, ad interrompere gli innocenti voli della fantasia. In un attimo, tutto affonda in un mare di liquami: la sporcizia, troppo a lungo evocata, in maniera strumentale, come metafora della ribellione anticonformista, torna, a tradimento, per impossessarsi nuovamente della scena, che le appartiene in virtù di un inalienabile diritto territoriale. Dopo tante vane digressioni, il cerchio si chiude sulla concretezza: quella che è banale, arcinota, eppure continuamente ci sorprende, sottraendoci ai nostri pensieri vagabondi, all’ebbrezza dell’entusiasmo, e risvegliandoci dal sonno, in cui, indolenti, ci lasciamo cullare dalle nostre presunte certezze. The Woman in the Septic Tank coltiva a lungo un incanto per poi bruscamente spezzarlo, e mostrarci che quello era proprio il traguardo a cui volevamo arrivare.
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