Regia di Nikita Mikhalkov vedi scheda film
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Pellicola dimenticata e cancellata dallo scorrere del tempo; proprio nella dimensione del ricordo Oci Ciornie di Nikita Michalkov (1987), ritrova il senso di un’umanità alla deriva nel vasto mare metafisico dell’esistenza, abbandonandosi alle sensazioni, i sentimenti e le occasioni perse nel corso della vita, che sono alla base della poetica di Cechov, da cui il film trae spunto tramite due racconti del grande letterato russo.
Marcello Mastroianni dopo i trionfali anni 60’ e 70’, durante i quali divenne il volto attoriale più noto all’estero del cinema italiano, nell’ultima fase della carriera, prese parte a numerose collaborazioni con cineasti internazionali.
I capelli ingrigiti dall’età ed il corpo imbolsito, donano alle interpretazioni finali di Mastroianni, un’aura dolente, che rende i suoi personaggi sempre più immersi in una pigra malinconia, struggendosi tra un presente che presenta l’amaro conto dei segni del tempo trascorso e la voglia di una giovinezza perduta da “latin lover”, destinata mai più a tornare, ma potendo rivivere solo attraverso relazioni fugaci, vissute con umana giocosità, tra piccoli saltelli e passi di danza - finché le gambe reggono -, cercando di cristallizzare nel dinamismo dei movimenti, gli ineluttabili segni evidenti delle rughe e dei dolori articolari, sempre più tiranni, infiacchendone anche lo spirito e la tempra, crogiolandosi in un torpore mortifero.
La nave da crociera, sulla quale l’oramai anziano Romano (Marvello Mastroianni) racconta al russo Pavel alcuni momenti significativi della sua vita per lo più anonima dopo il matrimonio con infelice con Elisa (Silvana Mangano), segna una dimensione onirica, tipica del cinema felliniano, a cui Michalkov si rifà nei toni di giocosa umanità e sia nelle citazioni - forse troppe -, nel segmento suggestivo ambientato alle Terme di Montecatini, dove il protagonista, dopo quasi 25 anni in cui è stato per lo più accudito tra gli agi ed i lussi della ricca moglie, paragonandosi ad un animale nello zoo servito e riverito, ritrova un ultimo istante di raggiante freschezza di una gioventù, che gli si presenta tramite un fugace adulterio con Anna (Elena Safonova), una giovane russa dagli occhi neri (da qui “oci ciornie” del titolo).
Una storia temporanea come un’altra e altre numerose avvenute in passato, ma questa volta c’è molto di più; l’amore, l’ultima occasione di riscatto offertagli, per chi si è lasciato avvizzire e consumare dalla vita agiata, senza coltivare il proprio talento di architetto, limitandosi a sopravvivere, senza poter mai osare di vivere.
Diviso in due perfetti tronconi, nella prima metà predomina la pigra stanchezza di Romano, nella vasta proprietà della moglie, con la quale ha ridotto i propri contatti al minimo. Nella dolorosa accidia di Romano, non manca mai una scintilla di “buffo” scaturita dai saltelli di un uomo eternamente ingenuo e leggero; forse un pò ipocrita nel criticare un mondo sentito noioso ma infondo comodo, senza però cattiveria, semmai inconcludente.
Romano ha tutto quello che potrebbe desiderare un uomo dalla vita, ma alla fine finisce con l’essere alla deriva su di una nave, in pratica un fallito, perché pur andando sino in Russia a cercare quell’amore per cui ha perso la testa, come mai prima di quel momento, forse imporrà dei confini fisici ad un sentimento che in realtà non conosce limiti geografici.
Rimbalzando tra toni agrodolci, leggeri e umoristici, nel ritratto eccentrico e fuori dagli schemi della società russa di inizio 900’, Michalkov è divertito quanto lo spaesato protagonista, che girovaga tra i sontuosi palazzi del defunto impero zarista e la vasta campagna popolata da gente che di stranieri non ne ha mai visti; ma pur non capendo una parola d’italiano, come del resto Romano non comprende il russo - ma circa 20 minuti in russo senza sottotitoli non si reggono, il senso dell’incomunicabilità felliniana sfianca lo spettatore senza essere incisivo - , fanno di tutto per metterlo a suo agio con un’accoglienza calorosa tra feste, canti ed offerte di cibo locale. Il cineasta ama dilungarsi molto più del necessario nei paesaggi rigogliosi e lussureggianti del vasto ed incontaminato territorio russo, ancora lontano - ma non per molto -, dall’essere ucciso dalle fabbriche “devasta-ambiente”, impiantate dai capitalisti stranieri di turno.
La poesia viene spesso soppiantata dall’estetizzazione auto-compiaciuta - pesa troppo l’aggiunta dei 20 minuti in più nella versione restaurata a Venezia 2016, che saggiamente vennero tolti all’uscita nei cinema in quanto fuorviano troppo dal fulcro tematico -, senza mai divenire elemento panteistico come nel cinema di Andrej Tarkowskji, dove l’ambiente aderisce ai moti d’animo del mondo interiore, come del resto nell’immanenza del dinamismo dell’animo umano, trova la forza la penna di Cechov, a cui qui non viene mai resa giustizia del tutto, nonché all’onirico e alla giocosità felliniana, i tanti ammiratori hanno sempre dimenticato, che si accompagna ai suoi personaggi una tragicità malinconica, senza la quale, sarebbero dei meri “circensi infantili”, mancanti del “buffo”.
Michalkov nella produzione internazionale, si perde in qualche luogo comune e banalità di troppo, senza farsene totalmente schiacciare, grazie anche ad un Mastroianni, che tramite il personaggio di Romano, pur non toccando alcuna nuova vetta recitativa, racchiude comunque tutta una carriera in un testamento artistico, fruttandogli numerosi riconoscimenti, tra cui il prestigioso premio a Cannes come miglior attore ad una nomination agli oscar (la sua terza ed ultima). Ultima pellicola per l’indimenticabile Silvana Mangano, prima della morte due anni dopo nel 1989.
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