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L'occhio che uccide

Regia di Michael Powell vedi scheda film

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La recensione su L'occhio che uccide

di Kurtisonic
8 stelle

“Vanta innumerevoli tentativi di imitazione”. Non è una parafrasi cinematografica sulla Settimana enigmistica (il riferimento alle parole crociate nelle prime battute di Peeping tom è quasi evocativo), il film di M.Powell rimane il punto di riferimento di un discorso analitico sul cinema, sulla natura dell’immagine che negli anni ha fatto, e continuerà a fare discutere, a mietere versioni differenti ma che sostanzialmente si interrogano sull’etica visiva, e sul diritto di mostrare e di guardare dentro un’immagine. Mark Lewis è un operatore cinematografico, vittima del padre sadico biologo, che filmava le sue reazioni alla paura quando era bambino per elaborare delle tesi scientifiche a riguardo. Adesso Mark vive per riprendere la morte, uccidendo le donne che filma, mostrandone loro il volto nello stesso istante in cui muoiono. Oggi lo definiremmo un thriller psicologico, ma già dalle prime sequenze si svelano caratteri, ruoli, relazioni, smontando di fatto qualsiasi congegno di genere che può connotare la struttura del film. A Powell interessa l’esplorazione psicanalitica, sociologica, mitologica che si relaziona  con l’uso dell’immagine. Fino a che punto ci si può spingere a mostrare, a filmare la realtà con gli strumenti della finzione, e cosa c’è di unicamente puro e reale se non la morte? Powell evoca la storia del cinema e ne mostra le estreme implicazioni morali ed estetiche (in rapporto al cinema dell’epoca e alla soglia di sensibilità del tempo). Mark vive con la piccola cinepresa sempre in mano, come un vero e proprio prolungamento di sé, pronto a catturare immagini come potessero essere l’unica e vera realtà da lui sostenibile, e la scena di quando viene baciato a cui risponde baciando l’obiettivo della cinepresa è un segno più che evidente.. Da un lato combatte contro il peso edipico del ricordo del padre, dall’altro non può che emularne e amplificarne l’insana violenza. Il set in cui Mark lavora riproduce l’ambiente più sterile del cinema, dai toni isterici da piccola commedia, con gli addetti ai lavori trasformati in macchinette di un vuoto spettacolo seriale. Helen, l’inconsapevole vicina di casa innamorata di lui, gli chiede di illustrare con delle fotografie un libro che sta realizzando, come fosse un ritorno alle origini, come se Mark e la sua macchina per immagini fossero disposti a guardare all’indietro. In realtà, Mark che fotografa come secondo lavoro per una rivista per soli adulti non è affatto disposto a fermare un’immagine e a focalizzarsi su di essa, tranne che si tratti della deformità, dell’anormalità che un corpo vorrebbe mascherare, egli è proteso ad assimilarla ed a fagocitarla in quella macchina smisuratamente enorme e potente che è la fabbrica dei sogni che arriva a confondersi con gli incubi. Non viene mai meno la struttura classica del film, capace di tessere relazioni continue fra un’immagine e l’altra, un oggetto e una persona, un ambiente e uno spazio, usando brevi e diretti movimenti di macchina, quasi non avesse bisogno di dialoghi in un’atmosfera che riporta nientemeno che al grande Hitch.. Altro elemento deflagrante è la presenza della madre di Helen, una cieca che riesce a percepire qualcosa della natura del giovane che nessun altro vede. “Tutto quello che riprendo è perduto..” dirà lo straordinario protagonista, sovvertendo completamente le teorie della cattura (della creazione) e dell’immortalità dell’immagine. Sarà la cieca in un drammatico crescendo a chiedere a Mark cosa guarda ossessivamente di notte nella sua stanza senza ottenere risposta, “Cosa c’è sullo schermo?” E’ il silenzio disperato di Mark a rispondere, senza l’interazione diretta o meno dei saperi, l’immagine da sola non è niente, rimane pura invenzione fine a sé stessa capace di sfidare il voyerismo dello spettatore tanto sfrontato quanto protetto dal filtro di uno schermo che lo separa da realtà più o meno verosimili, vera pornografia dello sguardo. I filmati del padre, che Mark fa vedere ad Helen sono accompagnati dal sonoro classico del cinema muto, il pianoforte,  fomentando l’illusione che l’immagine possa essere solo il riflesso del reale, la sua semplice riproduzione contenente una verità indiscutibile. Nel tormentato rapporto con Helen l’unica persona che riesce a farlo parlare, Mark riuscirà a separarsi dall’obiettivo, e per una volta a mettersi dall’altra parte, come  trasformato nella catarsi di un immagine destinata ad alimentare quell’autoriflessione che il cinema non dovrebbe mai trascurare. Di sicuro, Peeping tom ha ottenuto il risultato di ricrearsi e di rivivere all’interno di lavori simili rielaborati da altri registi fino ai giorni nostri, e il suo innesco teorico non accenna a spegnersi. 

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