Regia di Michael Powell vedi scheda film
M. Powell (1905-1990) è stato uno dei più importanti artigiani-autori mondiali, ma immancabilmente osteggiato nel patrio Regno Unito durante la sua carriera per il suo romanticismo a volte esasperato e troppo fantastico. Con Peeping Tom arriva al massimo dello scandalo e dell'indignazione, un film a basso costo ma pieno zeppo di inventiva e di malsanità capace di conficcarsi letteralmente nelle coscienze e di andare oltre fino alla pura teoria, distinato a diventare modello seminale del thriller - almeno in parte anche nei confronti del nostro Dario Argento.
Powell lo ha realizzato dopo che il fido coautore Emeric Pressburger si ritirò dal cinema (chissà se è uscito anche dalla sala cinematografica durante la proiezione...) e così ha potuto mettere in ballo direttamente se stesso (ma con lui, come uno stregone, per forza anche tutti noi spettatori complici) in questo film che è maledetto proprio perché sviscera impietosamente la nostra scopofilia paradossale che ci incanta e ci ipnotizza per mezzo della vista.
Il protagonista Mark Lewis (un magnifico Karlheinz Bohm, futuro marito di Martha nel film di R. W. Fassbinder qui accreditato come Carl Boehm, una faccia d'angelo tormentata dal passato e che fa trasparire la sua innocenza violata) infatti soffre in modo patologico di manie scopofile, ossia di voyeurismo, che lo portano alla pulsione omicida in modo particolare, per mezzo di una macchina da presa portatile dotata di una zampa acuminata. Tali disturbi si sono sviluppati come sorta di effetti collaterali degli esperimenti psicologici che il padre esercitava su di lui osservando con una cinepresa le reazioni del figlio alla paura, implicando già un ruolo di sadismo (e in Mark anche di masochismo) all'atto della visione moltiplicato dal mezzo tecnico, dall'immagine documentaristica in movimento (e qui si pensa alla realtà-finzione, in diversa percentuale e soprattutto dignità, dei mondo-movie), meccanismo tecnico parallelo a quello mentale, al suo montaggio introiettato. Mark operatore è l'alter ego del regista (ha pure gli stessi vestiti che Powell usava da giovane), in un suo filmato lo vediamo da piccolo accanto al padre e in questo inserto metacinematografico (come tutto il film) il bambino è interpretato dal vero figlio di Powell che a sua volta interpreta il genitore. La cinepresa è il demiurgo tra padre e figlio, figlio e vittime femminili, Mark e pubblico, regista e pubblico, anche tra regista e se stesso, è mezzo di approccio, di conoscenza, di possesso degenerato in annullamento, quando l'assassino possiede le vittime vampirizzandone la vita. La zampa dotata di lama quindi diventa, ancor più nel particolare, il tratto di collegamento, il canino che succhia il sangue conficcandosi nel collo e insieme un pene camuffato ma perennemente eretto, dominato da una pulsione mortale che agisce per mezzo di una metamorfosi erotica.
Soffermandosi sulla natura erotica del guardare (cui Powell rimanda, nella scena del cliente in edicola, anche a livello sociale nel nascente propagarsi anche in Inghilterra della pornografia più o meno clandestina, in un gioco morboso tra moralità e proibizione), la cinepresa ne diventa la materializzazione, quasi un occhio di cui si fa fatica a privarsi anche solo momentaneamente (naturalmente si pensa a Dziga Vertov), ma nel caso privato di Mark essa è anche ciò che lo ha accompagnato al capezzale della madre, figura che è rimpiazzata dalle vittime a loro volta cavie da cui spera di trovare una guarigione in realtà circolo vizioso, dalla ragazza di cui è innamorato (la Helen Stephens di A. Massey, apparentemente fragile ma combattiva) e dalla madre cieca (Maxine Audley) di Helen. Mrs. Stephens così, proprio perché cieca, è la sola che può intuire la natura subdola del ragazzo, come una specie di medium: il suo handicap acuisce certamente il suo istinto, ma è anche incapace di essere irretita nella trappola, manca per così dire l'esca, quando Mark ha l'impulso di ucciderla sa che fallirà perché ella non può spaventarsi, o meglio, non come vorrebbe lui, guardandosi allo specchio deformante montato davanti alla cinepresa, non può vedere la propria imago mortis. Come detto, però, Mrs. Stephens è soprattutto il ricordo della madre vera, quasi incestuosamente concupita in modo necrofilo, devianza soddisfatta al momento dell'omicidio e da cui è risparmiata l'amata Helen, che non verrà mai ripresa, cioè non diverrà fantasma anemico su uno schermo muto, commentato da una musica ossessiva e cupamente ritmica (di Brian Easdale) che pare creata dalla mente di Mark (livello musicale mediato).
L'apice finale non può che trovare sfogo su Mark stesso: egli diventa martire di se stesso penetrandosi con la cinepresa, diventa ulteriore attore di una messinscena dagli esiti autentici all'interno di quella fittizia, è martire sia come vittima autoimmolatasi sia come testimone della propria morte, vedendosi riflesso, masturbato da quell'arnese che è parte del suo corpo e della sua mente, finanche penetrato come in un simbolico incesto paterno in un atto sessuale orale abnorme, direttamente nel collo.
L'incastro dei punti di vista e degli intrecci psicologici e metacinematografici è ancora evidenziato dall'ambiente in cui ovviamente lavora Mark, un set, un ambiente che è tratteggiato con riuscito senso dell'umorismo che si incastra perfettamente con la scabrosità e la tensione della vicenda senza intaccarne assolutamente la credibilità, anzi rimettendo in campo con fare squisitamente burlesco la figura del regista, qui un estroverso urlante, come tratteggiato in modo esilarante dallo psichiatra che assiste l'attrice imbranata, shockata dalla scoperta di un cadavere durante le riprese e ormai traumatizzata alla sola vista di qualcosa di rosso.
A questo punto è forse superfluo aggiungere che si possa considerare Peeping Tom un capolavoro. 10
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta